Nell’analisi del professor Fernando Gabriele Giorgio Tateo si snocciolano gli aspetti che negli anni sono diventati un vero e proprio freno a mano per la viticoltura da tavola italiana. Studiosi dei Laboratori di Ricerche Analitiche e Tecnologiche sugli Alimenti e l’Ambiente del Dipartimento Di.S.A.A.- Università degli Studi di Milano hanno analizzato il comparto dell’uva da tavola negli ultimi tre anni.
I ricercatori dell’Università degli Studi di Milano oltre a interpellare piccoli e medi produttori di uva da tavola pugliesi (del Sud Est barese) hanno effettuato un’analisi delle problematiche che hanno impedito all’uva di conquistare consumatori.
In Italia l’innovazione varietale – si legge nel documento – non risolve molte delle problematiche insite nella commercializzazione dell’uva da tavola. Tale frutto, infatti, per la spinta concorrenziale di altre tipologie (pere, mele, frutti più o meno esotici, ecc.) non trova vita facile per il consumo e porta su di sé il peso di frutto “solo ed esclusivamente dolce”, con limitato interesse nutrizionale.
Secondo l’analisi a questo prodotto è mancata la spinta di carattere nutrizionale.
Il comparto negli anni non è infatti riuscito a contattare ricercatori per qualificare e riqualificare i nutrienti contenuti nell’uva, non ci si è mossi per sostenere studi volti a smitizzare la dolcezza e lo zucchero.
Uva: frutto obsoleto per i consumatori
L’uva da tavola, secondo i ricercatori milanesi, è rimasta relegata nella categoria della frutta “obsoleta”. Le ricerche dell’università milanese sottolineano che nel nostro Paese non vi è stata mai una degna politica di sviluppo e consumo del succo d’uva come bevanda.
Il rinnovo varietale non può essere la sola risposta
Rincorrere le novità a tutti i costi non è sempre un bene, eppure è stato questo l’unico pungolo che sui banchi dell’ortofrutta della GDO ha favorito la corsa alle varietà provenienti da oltreoceano.
Mancanze da parte della politica
Le mancanze – sottolinea il team di ricerca nell’analisi- sono da segnalare anche a livello politico, perché in generale manca il giusto grado di protezionismo per il nostro settore primario; stessa sorte che, per altro, è toccata al settore lattiero-caseario. La responsabilità di ciò, secondo gli analisti, è da imputare alla scarsa cultura scientifica di buona parte dei rappresentanti della politica politici, della cultura e della didattica del nostro Paese.
Mancano prodotti trasformati
Continuando a elencare le carenze che hanno contribuito a non stimolare il comparto troviamo la non applicazione delle nuove tecnologie di trasformazione. “A parte lo zucchero d’uva – spiega il professor Tateo – che non ha sortito poi così tanto interesse nei consumatori non ci si è adoperati per creare dei derivati trasformati. Ovvero prodotti in grado di coniugare i principi nutrizionali dell’uva con quelli di altra frutta, ricca anche di sostanze che non siano solo zuccheri”.
Indagare i benefici per la salute e caratteristiche nutrizionali del frutto
La ricerca varietale, si legge nel documento, dovrebbe prestare attenzione alla differenziazione – su basi scientifiche – dell’apporto nutrizionale delle diverse cultivar. Occorrerebbe proporre una politica di sviluppo nutrizionale dei “derivati” dell’uva.
Fitofarmaci: serve una nuova visione
Problematica non risolta – inoltre – è la mancata creazione di consorzi specificamente dedicati alla finalità di protezione dagli “abusi” circa un uso scorretto dei fitofarmaci. L’attenzione mediatica e le polemiche spesso sollevate in questo senso hanno contribuito a discriminare pesantemente il prodotto.
Qualità, qualità, qualità
Infine, il professore suggerisce: “Servono politiche atte a frenare la produttività a vantaggio della qualità, al fine di rendere l’uva da tavola appetibile per un mondo che è stanco d’inventare solo il “Bio” per incrementare l’offerta in mercato di prodotto sano e interessante per la salute umana”.
Tutti gli elementi elencati finora hanno contribuito – secondo lo studio pubblicato – a realizzare l’attuale situazione di stallo e una sostanziale perdita d’interesse per l’investimento da parte dei produttori. Parlare quindi unicamente di ricambio varietale e di nuove uve senza semi non servirà a risolvere i tanti problemi del comparto. Il nodo principale è dunque il disinteresse, da parte dei consumatori, per un prodotto che non può vantare una valore intrinseco.
Autrice: Teresa Manuzzi
©uvadatavola.com