La sentenza della Cassazione n. 9429/2024, nota ormai come sentenza “Miglionico”, ha riconosciuto il diritto dei produttori alla libera commercializzazione dell’uva ottenuta dalle piante propagate legittimamente, per le quali siano state pagate le relative royalties. Tuttavia, come abbiamo riportato, la decisione ha suscitato numerose domande e aperto al dibattito, non solo in Italia. V’è il timore che si possa in qualche modo penalizzare gli attuali equilibri di mercato, a svantaggio degli stessi produttori agricoli locali, portando i breeder a preferire altri mercati rispetto a quello italiano laddove non fosse più possibile ottenere la giusta remunerazione per gli ingenti investimenti in ricerca e sviluppo di nuove varietà.
Nel pieno della stagione dell’uva da tavola 2024, è quindi importante fare il punto della situazione sulla base delle diverse posizioni emerse.
Alcuni di questi temi sono stati anticipati nelle nostre pagine dall’Avvocato Roberto Manno, titolare dello studio legale WebLegal, nelle interviste del 2019 e del 2021, ben prima che fosse emessa la decisione della Corte di Giustizia dell´Unione Europea (CGUE) nel notorio caso “Nadorcott”, che ha poi fornito importanti linee guida interpretative sui limiti ai diritti di privativa vegetale, cui la Cassazione – e, prima di essa, nonché primo in assoluto, il Tribunale di Bari in un procedimento affine – si sono riportati. Abbiamo quindi deciso di contattarlo nuovamente per raccogliere il suo punto di vista.
Avvocato, la sentenza della Cassazione sembra ricalcare le tesi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella causa “Nadorcott” su cui Lei insiste da sempre.
Grazie mille per avermi contattato. Desidero ringraziare ancora una volta il mio amico e collega, l’avvocato Francesco Saverio Costantino, che ha brillantemente patrocinato il caso in Cassazione e con cui ho collaborato relativamente alle questioni di merito. Come avete giustamente evidenziato, a prescindere dalle possibili e diverse interpretazioni, la sentenza “Miglionico” è storica perché è la prima volta che la Cassazione affronta la questione della validità delle clausole contrattuali che eccedono i limiti legali dei diritti dei breeder. Prima era praticamente impossibile “scalare questa montagna”; dopo è sembrato impossibile il contrario, perché la CGUE ha elaborato un vero e proprio “test” idoneo a risolvere molti dubbi interpretativi. E quindi, grazie alla perseveranza della signora Angela Miglionico e del marito Gianni Stea, la Suprema Corte ha immediatamente colto l’importanza della vicenda, che va ben oltre i rapporti tra la Sun World International e i due coniugi: si tratta infatti di rispettare i limiti imposti dalla disciplina prevista dalla Convenzione UPOV e ratificata in Europa da un Regolamento Comunitario applicabile a tutte le varietà vegetali di qualsiasi specie botanica, la cui interpretazione è riservata alla CGUE. Sulla scorta della sentenza comunitaria, i giudici della Suprema Corte hanno rilevato un’insanabile incompatibilità tra le clausole contrattuali asseritamente violate dalla Miglionico (che per questo ha dovuto procedere all’eradicazione di un’intera piantagione) e la disciplina legale internazionale e comunitaria (dunque nazionale).
D’ora in poi, tutte le relazioni contrattuali tra breeder e produttori agricoli e le relative controversie nazionali dovranno uniformarsi al principio di diritto affermato dalla Cassazione.
La Corte di Cassazione ha statuito la nullità per contrarietà all’ordine pubblico della «clausola contrattuale che attribuisca al titolare dei diritti di proprietà intellettuale sulle cultivar brevettate anche il potere di individuare i soggetti ai quali soltanto spetterà la distribuzione dei frutti ottenuti dal produttore precedentemente autorizzato all’utilizzo dei costituenti varietali della varietà protetta da cui quei frutti siano stati prodotti, ove questi ultimi siano inutilizzabili come materiale di moltiplicazione». Quale sarà l’impatto di questo principio sui gruppi di selezione varietale?
Le reazioni alla sentenza sono state numerose e di segno opposto: occorre tuttavia inquadrare la questione nel giusto contesto, che – lo ripeto – va ben oltre la Puglia e le varietà di uva apirene. Se la Cassazione ha riscontrato nei contratti una violazione dell’ordine pubblico, sarebbe più opportuno riflettere su come si sia potuti arrivare a tanto: puntare l’indice contro chi ha fatto emergere questa contraddizione non è di buon auspicio. La sentenza della Suprema Corte ha esaminato un contratto, e non i “club varietali” in sé: le clausole che riservano al titolare di una varietà vegetale “un diritto di proprietà su piante e frutti realizzati dalla controparte in conseguenza dell’utilizzo autorizzato dei costituenti varietali” si pongono in conflitto con i “principi attinenti allo sviluppo dell’attività agricola ed alla libera concorrenza”. Questo dovrebbe essere il punto di partenza, che invece è tutt’altro che pacifico: sono in molti, infatti, a criticare tanto la “sentenza Miglionico” quanto la stessa decisione “Nadorcott” della CGUE. Un approccio opposto a quello della stessa UPOV (Unione internazionale per la protezione delle nuove varietà vegetali), che fin dal 2022 ha avviato una profonda riflessione proprio sulle stesse questioni trattate dalla Cassazione: nel corso dell’ultima riunione del Gruppo di Lavoro, è stato deciso di nominare un panel di esperti cui affidare uno studio su tali questioni, e sono sicuro che la sentenza Miglionico sarà di aiuto. Fatta questa doverosa premessa, ritengo che la citata pronuncia abbia un impatto non sul se, ma sul come dei “Club” e qui entrano in gioco moltissime componenti. L’autonomia contrattuale di cui gode il titolare di una nuova varietà vegetale si muove entro limiti assai ristretti, che la CGUE ha qualificato come “indispensabili” ad assicurare un adeguato sviluppo del settore agricolo a vantaggio dell’intera società. A differenza dei brevetti, i diritti esclusivi di cui gode il titolare di una varietà hanno un limitato ambito di applicazione, e cioè l’uso dei costituenti varietali per finalità di produzione o riproduzione di una pianta intera: sia quest’ultima che i frutti potranno sottostare al potere dispositivo del titolare nella misura in cui siano ottenuti dall’uso non autorizzato dei costituenti. In compenso, e proprio per consentire al titolare di recuperare gli investimenti, è prevista una durata superiore a quella brevettuale, che varia da 25 a 30 anni dalla concessione della varietà (che a sua volta può avvenire anni dopo il deposito della domanda di privativa).
Quindi, chi produce la pianta (o la piantagione) e successivamente i frutti (o le marmellate) non sarà il titolare della varietà, ma l’agricoltore, ovvero colui che avrà scelto quale varietà utilizzare tra quelle disponibili, pagandone il giusto sovrapprezzo o royalty. I contratti che qualificano una piantagione (anche se ottenuta dall’uso autorizzato dei costituenti varietali) come un bene proprietario concesso in locazione, da “restituire” in caso di scadenza o inadempimento contrattuale, si collocano oltre i limiti previsti dalla disciplina internazionale. Se è questo che s’intende per “Club”, allora potremo rammaricarci solo del perché questa pagina (a metà strada tra Kafka e Silone) non sia stata conclusa molto tempo prima. Al contrario, sia come esperto della materia, che come pugliese, vorrei che questa pronuncia stimoli un dialogo pacifico e costruttivo anche sugli schemi contrattuali dei “Club”, in un’ottica di maggiore bilanciamento degli interessi e dei diritti di tutti gli operatori di filiera, inclusi distributori, marketers e le stesse OP, spesso al centro di forti tensioni.
Spostando la questione sul piano del marchio commerciale, il discorso resta invariato?
Anche in questo caso, non ritengo che la questione possa dirimersi in poche parole. Ogni contratto, come ogni Club o marchio o la stessa varietà, racconta una sua storia: dare risposte generali sarebbe poco serio. Negli ultimi tempi è sempre più diffusa la necessità di trovare un punto di equilibrio tra i diritti di privativa vegetale e gli altri diritti di proprietà intellettuale, facendo presente come tale necessità fosse già stata prevista nel Regolamento (CE) n. 2100/94 concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali, tuttora vigente. Va tuttavia chiarito come tra brevetti, marchi, varietà vegetali e denominazioni varietali esistono notevoli differenze: si tratta di cavalli di colore diverso. Spesso, quando si parla di varietà vegetali, si impiega del tutto impropriamente il termine “brevetto”. Inoltre, il ricorso sempre più frequente ai diritti di marchio piuttosto che alle privative vegetali solleva diverse perplessità perché marchi e varietà vegetali hanno oggetti diversi e si propongono obiettivi diversi. Il fatto che vi siano diversi sistemi di tutela della proprietà intellettuale, che soddisfano differenti obiettivi e coprono vari oggetti di tutela pone la questione della coesistenza di questi diritti, che è tutt’altra cosa rispetto alla convergenza. Da questo punto di vista penso che la sentenza Miglionico abbia posto “paletti” molto rigidi e non sono così sicuro che il marchio varietale consenta di superarli. La sentenza Miglionico ha rilevato una gravissima illegittimità nella costruzione del rapporto tra breeder e agricoltore, e quindi dei principi fondamentali delle varietà vegetali: in un caso recente, il Tribunale di Genova ha respinto la tesi secondo la quale vendere la frutta senza fare uso del marchio equivale a contraffazione (de-branding), rilevando infatti come questa ipotesi ricorra solo nel caso di vendita di prodotto originale da cui sia stato effettivamente asportato il marchio legittimamente apposto dal produttore. Una tesi condivisa anche dell’ultima sentenza del collegio barese nella controversia relativa alla nullità della varietà Sugraone: dal momento che l’uva commercializzata non può essere contraddistinta dal marchio, non è ipotizzabile l’asportazione del marchio. Secondo i giudici, accertata la nullità del brevetto, non si può pretendere che un brevetto nullo si associ a un dato marchio. Non condivido chi ritiene errate le sentenze della CGUE o della Cassazione: al contrario, penso che stiano finalmente venendo al pettine molte contraddizioni di fondo, ed è per questo che osservo con grande attenzione le attività della UPOV e delle agenzie comunitarie come il CPVO e l’EUIPO. Si tratta di un fronte davvero molto stimolante per chi ama questa materia e in cui si distingue l’attività interpretativa dei giudici del Tribunale di Bari.
Perché secondo alcuni questa sentenza rischia di andare contro gli interessi e i diritti degli stessi produttori?
Non sono in grado di fornire una risposta che vada aldilà di questioni puramente giuridiche: da questa prospettiva, penso che la sentenza abbia senz’altro riconosciuto e tutelato i diritti dei produttori alla libera commercializzazione dei loro prodotti. Non è certamente la prima volta che la CGUE si pronuncia a salvaguardia del libero mercato, e ritengo che l’orientamento giurisprudenziale di questi ultimi anni apra nuove opportunità a vantaggio (non a svantaggio) di produttori, distributori, ma anche degli stessi breeder. Non sono d’accordo con chi ritiene che la CGUE e la Suprema Corte abbiano entrambe preso una cantonata. Un agricoltore che, dopo aver pagato le royalties per piantare e coltivare le marze, deve assistere all’eradicazione della sua intera piantagione, fa emergere una problematica concreta e ingiusta. Il buon senso vorrebbe che, proprio per la rilevanza e sensibilità della questione, questa sentenza funga da stimolo a rivedere “le regole del gioco”, esattamente come sta già accadendo oggi presso la UPOV. Fomentare una polarizzazione tra “buoni e cattivi” non va in questa direzione. Come già dichiarato nella precedente intervista del 2019, i produttori sono i primi partner commerciali dei breeder, perché è in base alle loro decisioni di acquisto che questi ultimi potranno ottenere quella che la legge definisce “equa remunerazione”. Sono convinto che nel prossimo futuro si apriranno nuove e molteplici strade. Ed è proprio su questo che io e il mio Team siamo intensamente coinvolti, forti dell’esperienza maturata nel panorama internazionale della proprietà intellettuale, che proprio nell’agricoltura ha mosso i suoi primi passi. Del resto, se l’agricoltura è la culla della proprietà intellettuale, la Puglia lo è dell’agricoltura.
Ilaria De Marinis
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