Si è conclusa da qualche giorno l’edizione 2020 delle giornate fitopatologiche, l’evento promosso dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro Alimentari dell’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna, dall’Associazione Italiana per la Protezione delle Piante (AIPP), da Federchimica-Agrofarma e da IBMA-ltalia, dedicato alla protezione delle piante.
A causa dell’emergenza sanitaria, quest’anno l’edizione si è svolta solo virtualmente, affidando a molteplici webinar i contributi di ricercatori, esperti e accademici.
In particolare, nella sezione “Agrofarmaci, salute e ambiente” del 29 ottobre, il professor Carlo Bazzocchi, presidente di AtBio, ha affrontato aspetti normativi e commerciali relativi alla residualità dei fosfonati applicati nella difesa.
Di seguito riportiamo il suo intervento, curato insieme a Daniele Fichera, coordinatore del Comitato Tecnico e Normativo di FederBio, Marco Brigliadori, responsabile tecnico di Apofruit Italia e Alessandra Trinchera, ricercatrice presso il CREA-AA.
Dal 2013, i fosfiti (fosfonato di potassio) sono stati autorizzati come prodotti fitosanitari. Questo ha inevitabilmente comportato che anch’essi fossero assoggettati alle specifiche norme sui prodotti per la difesa delle piante, quindi vincolati al Reg. CE N. 396/2005, concernente i livelli massimi di residui nei e sui prodotti alimentari e mangimi di origine vegetale e animale.
I produttori (e conseguentemente anche i loro fornitori) di prodotti alimentari per bambini (baby food) hanno così iniziato a richiedere il rispetto dei limiti sui residui di prodotti fitosanitari per i fosfiti che, secondo i rispettivi disciplinari, è di 0,1 o addirittura 0,01 ppm.
In alcuni Paesi europei quali la Germania e l’Austria, diventando prodotti fitosanitari – non disciplinati quindi dai regolamenti di agricoltura biologica – sono stati inoltre esclusi dall’impiego in agricoltura biologica i mezzi tecnici a base di fosfiti.
Tutto questo ha tuttavia comportato significative conseguenze sul piano commerciale: parecchie forniture immesse nel mercato sono state infatti rigettate perché non rientranti nei limiti previsti. Un aspetto che ha visto particolarmente coinvolta l’Italia, fra i principali esportatori di ortofrutta biologica della Germania.
D’altra parte, si deve proprio a questa criticità l’avvio di una ricerca più specifica circa le cause di residualità dei fosfonati.
In Italia, l’interesse di alcuni produttori agricoli, che a più riprese si sono rivolti all’ufficio PQAI 1 del Mipaaf, ha così favorito lo sviluppo di Biofosf, un progetto che, coinvolgendo tutti i soggetti interessati, ha dato vita a tre organismi di ricerca, fra cui il CREA-AA.
Diversamente da quanto riportato dal regolamento tecnico Accredia, nel nuovo regolamento è stata eliminata la dicitura “falso positivo”, relativamente alla presenza di acido fosforoso nel prodotto. Questo dato ha però permesso di evidenziare le cause di residualità di fosfonati tanto nel mondo biologico, quanto in quello integrato. In particolare:
-uso fraudolento;
-inquinamento da deriva;
-presenza di residualità per usi precedenti;
-presenza di fosfiti nei mezzi tecnici.
I fosfiti, una volta a contatto con la foglia, lasciano dei residui che rimangono sulla coltura. Il progetto, tuttavia, ha rilevato la presenza di residualità dovuta anche a usi precedenti: un’azienda che quindi è passata da un’agricoltura integrata a una biologica, ma precedentemente ha fatto uso di fosfiti, ritrova anche negli anni a seguire i fosfiti come residuo. La conferma è giunta da alcune verifiche effettuate sul legno, dove si è appunto registrato un rilascio di fosfiti anche nel corso degli anni successivi la produzione.
La presenza di residui di fosfonati è poi legata al mondo vivaistico dove sono utilizzati regolarmente. L’agricoltore che quindi acquista le piante troverà questa residualità per qualche anno, fino talvolta all’entrata in produzione della pianta stessa.
A destare maggiormente scalpore la residualità di acido fosforoso o fosforico nei prodotti non autorizzati. Nelle prove si sono infatti registrate percentuali non indifferenti di residui di prodotti non autorizzati, da pochi ppm fino a qualche punto percentuale, destando un allarme importante. Al tempo stesso, però, i dati hanno lasciato emergere un altro aspetto: le residualità erano dovute ai mezzi tecnici – sia fitofarmaci che prodotti fitosanitari – per un’immissione fraudolenta del prodotto, legata ai processi di realizzazione del prodotto o semplicemente al processo di packaging che possono aver determinato una certa residualità nel prodotto.
Segnalare questo è stato importante perché molte aziende hanno poi cercato di ridurre o quanto meno contenere queste residualità. Proprio alla luce di queste possibilità ci si è quindi chiesto se si potesse modificare il limite pari a 0,01 ppm previsto per la commercializzazione delle produzioni biologiche.
In ogni caso, da quando si è sollevato il problema dei fosfiti in agricoltura biologica si è notato un calo nella presenza di residualità tanto nei Paesi esportatori, quanto in quelli produttori.
La nuova normativa
La nuova normativa del 10 luglio 2020 modifica il DM 309 del 2011, secondo il quale il prodotto non poteva essere in alcun caso commercializzato con la certificazione di produzione biologica, nei casi in cui:
-Acido Fosfonico (Fosforoso): ≥ 0,5 mg/kg (ppm) per le colture erbacee
-Acido Fosfonico (Fosforoso): ≥ 1,0 mg/kg (ppm) per le colture arboree.
Tale decreto resta in vigore fino al 31 dicembre 2022. Dal 1 gennaio 2023, invece, le condizioni cambiano e il prodotto non potrà essere in alcun caso commercializzato con la certificazione di produzione biologica se la residualità di acido fosfonico (fosforoso) è maggiore o uguale a 0,05 mg/kg (ppm). Per tutte le colture la residualità di acido etilfosfonico resta però 0,01 ppm.
Nel decreto semplificazioni, all’art. 43, comma 4 bis del decreto legge 76, alcuni produttori hanno inoltre insistito affinché fosse inserita una condizione specifica: per le colture arboree ubicate su terreni di origine vulcanica, in caso di superamento dei limiti di acido fosforoso stabiliti dalla normativa vigente in materia di produzione con metodo biologico, qualora a seguito degli opportuni accertamenti da parte dell’organismo di controllo la contaminazione sia attribuibile alla natura del suolo, non si applica il provvedimento di soppressione delle indicazioni biologiche.
Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali possono essere poi stabilite specifiche soglie di presenza di acido fosforoso per i prodotti coltivati nelle predette aree.
Ma il lavoro continua perché adesso nuove sfide aspettano gli amministratori e i ricercatori. A partire dalla verifica e conferma dei lavori svolti fino ad oggi, anche su vino e altri trasformati. Il problema fosfiti, d’altra parte, non è più un problema italiano, ma europeo. Non a caso la Commissione europea ha stabilito un piano di monitoraggio per la contaminazione da fosfiti in tutti i Paesi dell’Unione. Questo potrebbe consentire, in seconda battuta, di affrontare anche la contaminazione da fosfiti nella frutta a guscio.
Importanti sono poi le indagini da condurre sulla coltivazione di funghi, che possono ancora riscontrare delle problematiche residuali con questi prodotti, e sulle possibili contaminazioni dei mezzi tecnici (accidentali e tecnicamente inevitabili) affinché non rappresentino più l’anello debole di un intero sistema.
Ilaria De Marinis
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