Self-DNA, alla scoperta del suo effetto inibitorio

Il gruppo di Ecologia e Modellistica dell’Università Federico II di Napoli svela il ruolo inibitorio del self-DNA, aprendo nuovi scenari per contrastare la stanchezza del terreno e non solo

da uvadatavoladmin
self-DNA

Negli ultimi anni, diversi studi hanno fatto luce sul ruolo inibitorio specie-specifico del DNA extracellulare. Tra questi, quello realizzato dal gruppo di Ecologia e Modellistica dell’Università Federico II di Napoli coordinato dal professor Stefano Mazzoleni, ha permesso di aprire nuovi scenari nella gestione di fenomeni come la stanchezza del terreno e l’auto-inibizione dovuta dall’azione del self-DNA, offrendo interessanti ipotesi applicative in campo. 

È stato osservato che molti tipi di organismi viventi, tra cui piante, alghe, funghi e animali, risultano inibiti dalla presenza nell’ambiente di frammenti del proprio DNA (self-DNA). 

Nel caso degli animali, ad esempio i moscerini della frutta (Drosophila melanogaster), il self-DNA addizionato al cibo provoca, a livello macroscopico, una forte diminuzione della riproduzione, un rallentamento dello sviluppo e una mortalità precoce. Effetti negativi si riscontrano anche nei nematodi della specie Caenorhabditis elegans che mostrano un aumento di mortalità e di malformazioni, mentre nella mosca Sarcophaga carnaria è stata osservata un’interruzione della metamorfosi delle larve, e quindi la morte delle stesse durante la fase pupale.

Nel caso dei funghi, invece, l’arricchimento con self-DNA del substrato di crescita riduce drasticamente la germinazione delle spore e lo sviluppo del micelio. L’effetto è molto simile a quello osservato per i semi o le radici delle piante, per cui il fenomeno è stato osservato sperimentalmente per decine di specie diverse, ed è risultato coerente con due fenomeni di grande interesse scientifico: “l’auto-inibizione” (o auto-tossicità) studiata in ecologia vegetale, e la “stanchezza del terreno” ben nota in ambito agronomico. In effetti, la scoperta dell’effetto inibitorio del self-DNA ha origine proprio dallo studio dei fenomeni appena citati. 

self-DNA 3

Effetto dell’esposizione di diversi organismi a self-DNA (barre rosse), DNA di altre specie (barre bianche) e acqua. Da Mazzoleni et al., New Phytologist (2015).

Stanchezza del terreno e auto-inibizione, seppur studiati in ambiti diversi, possono essere descritti in modo comune. In entrambi i casi, infatti, si osserva che la stessa specie vegetale non riesce a crescere ininterrottamente e indefinitamente sullo stesso suolo. 

L’auto-inibizione è un argomento spesso associato, in ambito ecologico, all’alternanza e alla coesistenza tra specie diverse, nonché allo sviluppo di particolari formazioni (o pattern) vegetali. Per capire di cosa si tratta possiamo soffermarci su un caso particolare, che riguarda alcuni cespugli a forma di anello. Questi cespugli, formati da singole specie erbacee o arbustive, si sviluppano a partire da un punto centrale per poi allargarsi per via vegetativa in maniera centrifuga, fino a formare dei cerchi di vegetazione. Mentre il cespuglio circolare continua a espandersi verso l’esterno, le porzioni centrali dello stesso muoiono, lasciando un anello di vegetazione esterno e una zona centrale vuota. L’aspetto curioso è dato dal fatto che, anche dopo diversi anni, la stessa specie vegetale non riesce a ricolonizzare la parte centrale degli anelli, mentre ci riescono agevolmente specie diverse. Questa dinamica ricorda la stanchezza del terreno in ambito agrario, ovvero il fenomeno per cui è praticamente impossibile coltivare ripetutamente la stessa coltura sullo stesso campo, e per cui è necessario ricorrere alle rotazioni colturali o al maggese.

Il motivo è che quella stessa specie – crescendo – ha avuto un qualche tipo di effetto sul suolo tale da renderlo inospitale per se stessa. Concetto che, in letteratura scientifica, è studiato con il termine Plant-soil negative feedback. Per lo studio di questi fenomeni, la ricerca si è a lungo dedicata all’individuazione del fattore causale dell’inospitalità specie-specifica appena descritta. Già a partire dall’Ottocento alcuni autori di grande rilievo, tra cui il botanico svizzero Augustin Pyrame de Candolle, ipotizzarono che alla base di tutto vi potesse essere il rilascio da parte delle piante di particolari fitotossine ad azione specie-specifica. Questa ipotesi ha generato grandi entusiasmi in diverse generazioni di scienziati e tecnici, arenandosi tuttavia nella difficoltà tecnica di identificare in modo solido la natura chimica di queste tossine. 

self-DNA 4

Rappresentazione della stanchezza del terreno in funzione dell’accumulo di self-DNA delle piante coltivate

Un punto di svolta è stato raggiunto proprio con la scoperta recente, realizzata dal gruppo di Ecologia e Modellistica dell’Università Federico II di Napoli coordinato dal Prof. Stefano Mazzoleni, del ruolo inibitorio del self-DNA.

Il DNA, che negli organismi vivi è alla base di tutte le attività cellulari, si disperde nell’ambiente a seguito della morte e della successiva decomposizione degli organismi o di parti di essi. Nel caso delle piante, coerentemente con le intuizioni di De Candolle, il DNA è anche rilasciato dalle radici sotto forma di essudati radicali. Il DNA, oltre a essere la molecola specie-specifica per eccellenza, possiede alcune caratteristiche fisico-chimiche peculiari e particolarmente adatte a spiegare i fenomeni di auto-inibizione vegetale osservati in natura e agricoltura. In primo luogo, i frammenti di DNA sono particolarmente resistenti alla degradazione e possono quindi accumularsi nei suoli anche nel corso degli anni. Inoltre, questi sono idrosolubili e possono quindi essere dilavati facilmente dall’acqua

Questa seconda caratteristica risulta illuminante per spiegare perché gli anelli di vegetazione si osservano principalmente negli ambienti semi-aridi, in cui la scarsità di precipitazioni si traduce in poco dilavamento di self-DNA. O ancora, tornando in ambito agrario, come mai il riso coltivato in risaie ciclicamente allagate, in cui vi è quindi un ripetuto dilavamento del DNA, può essere coltivato ripetutamente senza dover ricorrere a rotazioni o periodi di maggese, cosa impensabile con altre colture cerealicole o con lo stesso riso coltivato “in asciutta”. Il legame tra self-DNA e stanchezza del terreno, però, non è solo interessante dal punto di vista strettamente scientifico, ma anche per considerazioni tecniche e applicative. Negli ultimi anni, abbiamo assistito con una frequenza crescente alla diffusione di malattie e morie di difficile soluzione, la cui eziologia risulta spesso non del tutto chiara.

Alcuni lavori suggeriscono che l’esposizione delle piante ad abbondanti dosi di self-DNA possa essere un fattore predisponente alle malattie e fisiopatie, in grado di limitare la capacità delle piante di far fronte a stress sia biotici che abiotici.

Sviluppare nuovi approcci agronomici contro l’accumulo del self-DNA nei suoli può quindi essere utile anche per rispondere a determinati problemi colturali che almeno all’apparenza potrebbero non essere associati alla stanchezza del terreno. In questo senso è importante notare che alcune pratiche colturali di uso comune possono velocizzare l’accumulo di self-DNA nel suolo, accelerando e aggravando i problemi in campo. Per capire meglio questo aspetto, è essenziale mettere in evidenza l’importanza della biodiversità nell’ottica dell’equilibrio tra DNA ambientale di specie diverse. Ad esempio, è stato osservato, che le piante sono in grado di assorbire rapidamente il DNA di specie diverse. In campo questo si traduce nel fatto che, se presenti, eventuali piante di specie diverse possono ridurre il DNA della coltura principale presente nel suolo. Inoltre, piante e altri organismi di specie diverse, così come i fertilizzanti organici, rilasciano frammenti di DNA “eterologo” (DNA di altre specie) nel suolo in grado di “diluire” il self-DNA colturale, riducendone gli effetti negativi. 

self-DNA 1

Radici di Arabidopsis thaliana esposte a DNA extracellulare (evidenziato in blu) e osservate al microscopio. Dopo un’ora dalla somministrazione, si osserva che il self-DNA rimane all’esterno della radice, mentre il DNA eterologo (nonself-DNA) viene assorbito dalla stessa. Adattato da Chiusano et al. Plants (2021).

Questi concetti suggeriscono che, in generale, le operazioni colturali che tendono a ridurre la biodiversità in campo (come diserbi e uso di biocidi), riducono la naturale capacità di specie diverse o fertilizzanti organici di origine eterologa di bilanciare il DNA della coltura principale, aggravando l’accumulo del self-DNA.

In molti contesti produttivi, inoltre, un grosso elemento peggiorativo è rappresentato dall’errata gestione dei residui colturali. Per questioni pratiche, in virtù dell’impossibilità di ricorrere alla bruciatura, ma talvolta anche per presunti benefici agronomici ipotizzati sulla base di una conoscenza parziale del ciclo della sostanza organica, si è delineata la tendenza a lasciare i residui colturali in campo o, peggio, ad apportare dall’esterno scarti di lavorazione della stessa coltura come fertilizzante (es. vinacce in viticoltura, acque di vegetazione in olivicoltura). Questi residui, decomponendosi, rilasciano abbondanti quantità di self-DNA nel terreno, creando specialmente in caso di trinciature e altre operazioni pensate proprio per velocizzare la decomposizione, veri e propri aumenti repentini di stanchezza del terreno. Al contrario, per contrastare l’accumulo di self-DNA, bisognerebbe incrementare la diversità biologica e della sostanza organica in campo. Inerbimenti polifiti, asportazione dei residui colturali e fertilizzazioni organiche eterologhe possono rallentare efficacemente la comparsa della stanchezza del terreno e dei problemi connessi. Un’ulteriore tecnica, ormai efficacemente utilizzata in molti contesti, è quella dei tè di compost. Si tratta di fertilizzanti liquidi a basso costo realizzati attraverso l’infusione prolungata di compost o altre matrici organiche eterologhe in acqua. Un utilizzo costante e ripetuto di questi formulati può dare un contributo notevole alla mitigazione dei problemi legati all’accumulo di self-DNA, configurandosi come un input costante e localizzato di DNA eterologo e biodiversità microbica.

self-DNA 2

Esempi di recupero di stanchezza del terreno su vite attraverso l’utilizzo mirato di té di compost

A livello applicativo, però, la scoperta dell’effetto inibitorio del self-DNA, potrebbe spingersi oltre lo sviluppo di nuove strategie agronomiche contro la stanchezza del terreno. Ribaltando completamente la prospettiva, un’ulteriore idea attualmente in fase di sviluppo riguarda l’utilizzo di DNA di patogeni, parassiti o infestanti come strumento di biocontrollo. Essendo infatti l’auto-inibizione da self-DNA un fenomeno biologico generale, è possibile utilizzare il DNA di un certo organismo indesiderato per contrastare lo stesso organismo in modo estremamente mirato, senza effetti collaterali sulle altre specie o sull’uomo. Questo approccio, al centro di importanti ricerche e sperimentazioni internazionali, avrebbe notevoli vantaggi agronomici e ambientali, permettendo di reinterpretare totalmente le attuali strategie di biocontrollo, in una prospettiva molto più vicina ai meccanismi di autoregolazione delle specie normalmente presenti in natura.

A cura di: Mauro Moreno – Ricercatore Università degli Studi di Napoli Federico II
©uvadatavola.com

Articoli Correlati