Con Marcello Guidi, di Apofruit Italia, impariamo a scoprire gusti, tendenze e dati del prodotto uva da tavola sul mercato europeo. Dobbiamo imparare a gestire meglio il Made in Italy come leva di mercato.
Marcello Guidi, responsabile del mercato Estero per Apofruit Italia, è anche country manager per le uve da tavola per conto di Apofruit Italia. L’impresa cooperativa che opera da più di 50 anni e può contare su strutture e soci produttori dislocati su tutto il territorio nazionale. Se parliamo di uva da tavola la cooperativa gestisce uno stabilimento di lavorazione, situato a Scanzano Jonico (Mt). Inoltre, con l’O.P. Terra di Bari gestisce la commercializzazione del prodotto conferito presso il magazzino di Noicattaro (Ba) e gestito dalla stessa OP.
Marcello, proviamo a “dare i numeri”: quali sono i volumi che l’Italia Esporta, importa, o vende in Italia?
“I dati in mio possesso fanno riferimento al CSO Italy, il Centro Servizi Ortofrutticoli di Ferrara – di cui Apofruit fa parte – e si basano sui dati ISTAT. Nel 2020 (in riferimento all’anno solare) abbiamo esportato 462 mila tonnellate di uva da tavola, ovvero il 10% in più rispetto al 2019. Anno nel quale le tonnellate esportate sono state 419 mila. Nell’anno 2018 sono 455 mila le tonnellate di uva che l’Italia ha spedito oltre i suoi confini. Ricordo che il 2019 è stata un’annata un po’ più scarica in termini produttivi e questo si è riflesso anche nelle esportazioni. In termini di importazioni, guardando il Paese Italia, abbiamo importato 18.800 tonnellate di uva nel 2020, contro le 21.600 tonnellate del 2019 e le 19.400 del 2018. L’export segna quindi una tendenza positiva, mentre l’import subisce una flessione nel 2020 rispetto al 2019, ma è un dato che segue la produzione interna. Emerge, infatti, che nel 2019 abbiamo esportato meno e importato di più, proprio perché è stata un’annata particolarmente scarsa in termini di volumi”.
E se ora parlassimo non solo dei volumi, ma anche del valore… Siamo in grado di farci pagare il “Made in Italy? Negli anni il prezzo del prodotto è stabile, è aumentato o diminuito?
“Guardando i dati aggregati che ho a disposizione, il valore che abbiamo nelle esportazioni per il 2020 è superiore di un 14 – 15% rispetto al 2019; e parlo di valore in migliaia di euro. A mio modo di vedere su questo incide anche la quantità di uve seedless prodotte ed esportate. I prezzi associati a questo prodotto sono superiori e sono tesi al rialzo; quelli delle uve con seme, al contrario, stanno mostrando nel tempo una tendenza negativa con prezzi che tendono al ribasso. Il quadro che abbiamo appena delineato è fedele al sensibile aumento della domanda di uve apirene nei mercati europei. Domanda, secondo me, nei prossimi anni non farà che crescere. Possiamo quindi affermare che, complessivamente, il valore del prodotto uva da tavola negli ultimi anni è in crescita, sulla base dei dati del CSO. Vorrei anche soffermarmi su di un altro importante segmento che di anno in anno mostra ottime performance: il biologico. Quest’anno per noi la quota BIO ha raggiunto il 30% del Totale”.
L’europeo medio sta mangiando sempre più uva, quindi?
L’europeo medio, negli ultimi anni sta mangiando più uva, ma sta mangiando uva senza semi.
“L’europeo medio, negli ultimi anni sta mangiando più uva, ma sta mangiando uva senza semi. Tutto questo sta relegando l’uva con seme a prodotto per le attività promozionali, questa è la tendenza che notiamo in azienda. In Paesi come la Scandinavia si consumano esclusivamente seedless. La Germania richiede ancora piccole quote di uve con seme, ma di anno in anno queste si assottigliano. Le apirene sono inoltre particolarmente interessanti per alcuni dei nostri clienti che realizzano dei mix di frutta, come le macedonie. All’interno di questi prodotti viene utilizzata solo uva senza semi. Uva pronta al consumo, inserita in vaschette di frutta mista tagliata e perfetta per gustosi e nutrienti fuori pasto. In questa ottica il valore del prodotto raggiunge dei picchi elevatissimi. Di fatto in ogni bicchiere si inseriscono pochi grammi di uva, qualche acino. Esistono anche delle linee dedicate che prevedono una comunicazione al consumatore per alcune varietà maggiormente conosciute e facilmente riconoscibili per mezzo anche di packaging caratterizzanti e linee premium. Esiste proprio una nuova tendenza a riguardo che vede la crescita di quelle che noi chiamiamo “specialities”: ovvero varietà con caratteristiche specifiche che vengono vendute anche ad un prezzo più alto della media”.
Le campagne di comunicazione nei punti vendita da chi sono gestite?
Ad oggi i breeder non intervengono attivamente sulla vendita, le attività sono spinte da noi produttori e dalla GDO. Se prendiamo altri frutti, come le mele – e penso alla pink lady – o il kiwi – e penso ai kiwi Zespri – troviamo un reparto marketing molto attivo. Sulle uve non è così. Con il marchio Solarelli, ad esempio, abbiamo concordato e realizzato alcune promozioni sul prodotto uva da tavola proprio coordinandoci con i Buyer delle catene.
Quindi se le OP si impegnassero a curare anche il passo successivo alla raccolta, potrebbero vendere il prodotto in modo più accattivante e spuntare prezzi più alti?
Certamente, l’obiettivo dell’aggregazione è fare massa critica. Noi ci confrontiamo con poche realtà, perché in Europa le realtà che determinano i prezzi dell’uva si possono contare usando appena le dita di due mani. Al contrario, dal punto di vista produttivo, la frammentazione è enorme e ciò non solo va a discapito delle attività di comunicazione e marketing, ma anche degli stessi prezzi. Ed è proprio su questo che la GDO cerca di approfittarsene. L’obiettivo di APOFRUIT ITALIA e dell’OP Terra di Bari è proprio quello di aggregare il settore commerciale e produttivo per fare massa critica e, di conseguenza, far sì che i produttori riescano a spuntare prezzi più alti.
Negli ultimi anni sono aumentati i Paesi produttori di Uva da tavola che propongono la loro merce in Europa?
Le nostre produzioni, quindi, non solo si scontrano con quelle dei “cugini del mediteraneo”, ma sgomitano anche con i produttori dell’emisfero Sud. Devo però precisare che, stando alla mia esperienza, il consumatore europeo – potendo scegliere – predilige il prodotto europeo e questo me lo confermano anche i buyer.
“Quello che notiamo è che in Italia sono in aumento le superfici dedite alla produzione di uve seedless a scapito della produzione di uve tradizionali. Tendenza simile la registriamo anche in Spagna e Grecia, dove sono in crescita le superfici vitate. I Paesi del Maghreb – ovvero dell’Africa del Nord – e mi riferisco in particolare a Egitto e Marocco, stanno investendo in seedless. I breeders allargano sempre più la maglia dei licenziatari e pensano sempre a livello globale. In alcune annate, quindi, può capitare di assistere ad una sovrapposizione delle nostre finestre di mercato con quelle di Egitto e Marocco. Stiamo parlando di Paesi con costi di produzione che nulla hanno a che fare con i nostri. In questo caso potrebbero nascere dei problemi. Altra sovrapposizione la vediamo a “fine” della nostra campagna. Di anno in anno le uve sudamericane anticipano il loro arrivo sui mercati europei. I produttori d’oltremare spingono per la chiusura della nostra stagione e di quella spagnola. Al contrario, grazie anche allo sviluppo varietale, i viticoltori europei cercano – dal canto loro – di allungare il più possibile la propria stagione… e di conseguenza la finestra di mercato. Le nostre produzioni, quindi, non solo si scontrano con quelle dei “cugini del mediteraneo”, ma sgomitano anche con i produttori dell’emisfero Sud. Devo però precisare che, stando alla mia esperienza, il consumatore europeo – potendo scegliere – predilige il prodotto europeo e questo me lo confermano anche i buyer.
Quando si passa dal prodotto UE a quello d’importazione le vendite subiscono un calo sensibile. Pertanto anche la GDO avrebbe piacere a continuare a vendere la nostra uva il più a lungo possibile”.
Mi stai dicendo che la leva dell’origine del prodotto è sempre una leva molto forte per il consumatore?
Indubbiamente, la provenienza europea è ricercata dal consumatore rispetto a quella extra europea.
Aiutami, infine, a chiarire un dubbio. Nel momento in cui un nostro competitor dovesse produrre le nostre stesse varietà sarebbe un problema per i viticoltori italiani? In questo caso, infatti, l’unica differenza (visto che stiamo parlando di un prodotto standardizzato) sarebbe il prezzo; ma noi italiani non possiamo certo vantare costi di produzione concorrenziali.
Vero, alcuni breeder propongono le proprie varietà in tutti gli areali di produzione del globo. questa standardizzazione varietale alla GDO ovviamente piace, ma c’è da specificare che una stessa cultivar si esprime in modo diverso a seconda del luogo in cui viene impiantata. A mio avviso il problema sarebbe limitato solo ad alcuni momenti della produzione, perché gli areali consentono di realizzare una scalarità produttiva. Magari a luglio, nel momento in cui l’Egitto si allungherà con la sua stagione potrà pestarci un po’ i piedi. Ad ogni modo per poter uscire da situazioni come questa dobbiamo ricordarci del nostro salvagente: l’origine, il “Made in Italy”. Noi italiani produciamo un prodotto di qualità, seguiamo determinati protocolli e abbiamo altissime “accortezze fitosanitarie” che rendono il prodotto unico e sicuro. Dobbiamo ricordarci queste cose e dargli valore. La nostra uva è prodotta con uno sforzo maggiore. In Italia è vietato usare alcuni fitofarmaci? Non lamentiamoci, ma usiamo l’argomento come un punto di forza, per caratterizzare il nostro prodotto al momento della vendita.
Autrice: Teresa Manuzzi
©uvadatavola.com