L’Italia è il secondo produttore al mondo di uva da tavola dietro al Cile e davanti a Stati Uniti e Sudafrica.
Con una media produttiva 2009-2018 di oltre 1,1 milioni di tonnellate, pari ad un valore della produzione oscillante tra 1,2 e 1,5 Miliardi di €, il nostro Paese è il principale riferimento europeo in questo settore dove le esportazioni rappresentano una quota di mercato crescente (31% nel 2004, 45% nel 2018) a fronte di un mercato interno sostanzialmente stabile. L’uva da tavola è il secondo prodotto frutticolo per valore delle esportazioni dopo le mele.
L’uva da tavola rientra nel novero dei prodotti stagionali, ambito nel quale la programmazione delle colture riveste un ruolo particolarmente rilevante. Gli andamenti stagionali hanno un impatto rilevante sul prezzo e quindi sui consumi.
Dal punto di vista fondiario siamo di fronte al consueto paesaggio parcellizzato all’interno del quale si individuano alcuni grandi produttori privati che dispongono di fondi propri ai quali tendono ad aggregare più o meno vaste costellazioni di piccoli produttori che condividono protocolli fitosanitari e programmi comuni di filiera. Molto rilevante, in questo settore, è anche il ruolo dei commercianti all’ingrosso che svolgono un ruolo diretto o indiretto di organizzatori della produzione.
Nel corso degli ultimi anni nel campo dell’uva da tavola, all’interno di un processo che interessa tutto il comparto ortofrutticolo legato alla stagionalità, ha assunto centralità il tema della diversificazione delle varietà con l’intento di ampliare l’offerta e allungare la stagionalità di un prodotto caratterizzato da un ciclo di raccolta-distribuzione e consumo tradizionalmente molto breve. La ricerca varietale è appannaggio di grandi realtà multinazionali che in questi anni hanno messo a punto numerosi brevetti a partire dal grande spartiacque rappresentato dall’introduzione dell’uva senza semi (apirene), che ha conosciuto una vasta diffusione nei mercati internazionali, di fatto soppiantando le varietà tradizionali.
Le nuove varietà seedless hanno spiazzato gli operatori nazionali che hanno faticato, e faticano ancora oggi, ad adottare le necessarie iniziative di adattamento delle colture.
In un quadro in cui l’Italia ha mantenuto a lungo una leadership produttiva incontrastata basata sulle varietà tradizionali (Regina, Vittoria, Italia) l’avvento delle nuove varietà ha indubbiamente spiazzato gli operatori nazionali che hanno faticato, e faticano ancora oggi, ad adottare le necessarie iniziative di adattamento delle colture. L’esordio sul mercato dei club varietali anche per l’uva da tavola ha introdotto una importante novità nel campo della programmazione della produzione.
L’uva è un prodotto con grandi caratteristiche di delicatezza che deve essere difesa da attacchi parassitari e dagli agenti atmosferici lungo tutto il ciclo produttivo, richiedendo particolare perizia e cura da parte degli operatori al campo cui spetta il compito di portare a maturazione i prodotti attraverso un costante monitoraggio delle colture.
Nell’ambito della filiera dell’uva da tavola il rilievo posto dagli interlocutori sul valore delle professionalità al lavoro al campo e sull’impatto occupazionale del settore è giustificato dal semplice dato di partenza per cui in ambito ortofrutticolo la coltivazione dell’uva da tavola è tra quelle che richiede il maggior numero di ore/ettaro di manodopera, esprimendo un fabbisogno medio di 750 ore/ha rispetto alle 500 del kiwi, alle 400 di mele e pere. Il mercato del lavoro della coltivazione dell’uva da tavola, come per altro quello di altri comparti ortofrutticoli a base stagionale, si caratterizza per una segmentazione interna nella quale si riconosce un nucleo ristretto specializzato e impegnato nelle attività al campo per tutto l’anno ed un più vasto bacino di manodopera relativamente poco qualificata che viene attivato nella stagione della raccolta.
Se il panorama relativo all’effettività della contrattazione sembra restituire un processo di lento miglioramento del contesto con una dichiarata volontà delle parti sindacali nel trovare punti di incontro e traiettorie di lavoro convergenti, diversa è invece la situazione che attiene al vasto bacino di manodopera, a prevalenza femminile, ingaggiato nella stagione della raccolta, dove invece le condizioni di lavoro al campo presentano ampi margini di miglioramento.
Fonte: Repubblica.it