Viticoltura da tavola tra storia e curiosità

La storia della viticoltura da tavola come la intendiamo oggi ha origini remote: le riscopriamo, tra aneddoti e curiosità, con il ricercatore Mario Colapietra

da uvadatavoladmin
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La storia della viticoltura da tavola come la intendiamo oggi ha origini remote, ben lontane dall’Italia meridionale. Incroci fortuiti e personaggi lungimiranti, però, ne hanno cambiato la trama, definendo una narrazione ben diversa che porta oggi il comparto dell’uva da tavola italiano sulla vetta d’Europa.

La storia della viticoltura da tavola inizia ben lontano dal Sud Italia. 

In particolare, nelle serre di viti di Hammersmith, località vicino Londra, dove – agli inizi del 1800 – comparve per la prima volta una strana malattia: si notarono sulle foglie delle viti europee delle strane formazioni, fino ad allora sconosciute e introdotte con le viti americane provenienti dall’America. Nel 1866, l’entomologo inglese Westwood, descrisse le galle radicicole e fogliari assimilabili all’azione dell’afide Phylloxera vastatrix. Intanto in Francia, nel dipartimento di Gard, già nel 1865 si notarono deperimenti dei vigneti con grande preoccupazione dei viticoltori locali. Numerosi furono gli ettari di vigneti danneggiati. Basti pensare che prima della diffusione dell’insetto, la produzione di vino francese dell’epoca oscillava fra i 40 e i 70 milioni di ettolitri all’anno, mentre nel 1879 scese a 25 milioni. Sempre nel 1879, la presenza dell’afide fu rilevata anche in Italia, prima a Valmadrera (Lecco), poi in provincia di Milano, a Porto Maurizio (l’attuale provincia di Imperia) e in Sicilia, dove dilagò. Numerosi furono i tentativi per combattere la fillossera, a partire dai trattamenti alle radici delle viti con pali iniettori, somministrando solfuro di carbonio o altri insetticidi. Tutto risultò inutile perché non si riuscì a bloccare la diffusione dell’afide. Nacque allora l’idea di creare delle piante innestate, che mettessero insieme l’apparato ipogeo delle viti americane (resistente alla fillossera) e la parte produttiva epigea delle varietà europee. Pratica che si rivelò efficace, rappresentando il primo esempio di lotta biologica che consentì la ricostruzione della viticoltura europea. In Italia Antonino Ruggeri, direttore dei Regi vigneti sperimentali di Spadafora (Messina), costituì portinnesti efficaci e largamente utilizzati. Tra questi alcuni diffusi attualmente sono: 140 Ru (Berlandieri x Rupestris) e 225 Ru (Berlandieri x Riparia). Anche Federico Paulsen costituì ibridi interessanti, come 775 P, 779 P, 1103 P (Berlandieri x Rupestris). 

La costituzione di questi portinnesti costituì un passaggio fondamentale nella storia del comparto viticolo in Italia.

Fino al 1882, infatti, nel Belpaese non vi erano vigneti distinti per la coltivazione di uva da tavola o da vino. Per l’esportazione si sceglievano i grappoli a maturazione precoce con buccia consistente. Le uve a frutto bianco o giallognolo erano Bombino bianco, Fiano, Malvasia bianca, quelle a bacca violacea Uva di Troia, Aglianico, Sangiovese, Montonico, Montepulciano, Ottavianello. Già dal 1869, da Bisceglie (BA) iniziarono le spedizioni di uva verso altre città italiane come Milano, Torino, Bologna, ma anche verso Paesi esteri come Germania, Svizzera e Austria. Per i primi dati significativi relativi alla coltivazione e produzione di uva da tavola in Italia, però, bisogna attendere il 1900, quando inizia la raccolta dati da parte della statistica ufficiale del Ministero dell’Agricoltura. Stando a quanto riportato, la produzione nazionale di uva da tavola all’epoca era di circa 500 mila quintali, di cui 150 esportati. Le province interessate erano nell’ordine Piacenza (118.000 q), Teramo (75.000 q) e Bari (73.000 q). Altri quantitativi (tra 2.000 e 35.000 quintali) riguardavano le province di Cuneo, Bologna, Napoli, Trapani, Verona, Lecce, Vicenza, Venezia, Roma e Chieti. Le regioni dell’Italia meridionale contribuivano alla produzione nazionale con 202 mila quintali, pari al 46,4% del totale rispetto al 53,6% dell’Italia settentrionale e centrale. La Puglia, in particolare, partecipava con il 18,2%, l’Abruzzo con il 15,3%, la Campania con l’8,4% e la Sicilia con il 4,5%. 

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Produzione (%) regionale uva da tavola nel 1912

Come riportato nella figura in basso, relativamente ai quantitativi di uva da tavola prodotti in Italia ed esportati in Europa nel periodo 1930-2000, nel 1930 la produzione si attestava intorno agli 800 mila quintali, con circa la metà esportata. Un primo incremento si ebbe nel 1945, quando aumentò la produzione di uva destinata al consumo diretto, arrivando a 1,3 milioni di quintali, trainata per il 50% da Puglia e Sicilia. Produzione che nel 1950 aumentò ulteriormente, raggiungendo 1,8 milioni di quintali. Tra le regioni produttrici, la Puglia (30%) occupava il primo posto, seguita da Abruzzo (13%), Sicilia (11%), Toscana (8%) ed Emilia Romagna (7%), a dimostrazione della progressiva tendenza dello spostamento della produzione verso il Sud.

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Andamento della produzione ed esportazione nel periodo 1930 – 2000

In particolare, si osservò che soltanto nei territori a clima caldo-aridi, l’uva era più gialla, con elevati contenuti di zuccheri e aromi. Inoltre risultava meno suscettibile alle malattie e meglio si conservava sulla pianta. Fu allora che in queste regioni aumentarono gli investimenti e le superfici destinate ai nuovi vigneti. A fare da traino anche fattori sociali: la coltivazione di uva da tavola, infatti, richiedeva molta manodopera. 

Sollecitata anche dalla richiesta dei Paesi europei di uva italiana, nel periodo dal 1940 al 1960 la produzione registrò incrementi significativi: non riuscendo a soddisfare la richiesta, i volumi di uva prodotta passarono da 1,2 a 6 milioni di quintali e quella esportata da 150 mila a 2 milioni di quintali. 

In Puglia, la superficie complessiva destinata alla coltivazione di uva da tavola raggiunse quasi il 40%, imponendosi come leader tra le regioni italiane. A distanza di un ventennio, nel 1980, la produzione italiana di uva da tavola toccò circa i 13 milioni di quintali, di cui 4,3 venivano esportati. 

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Raccolta, pesatura e vendita dell’uva

In definitiva, fu nel 1995 che la viticoltura italiana raggiunse il traguardo del massimo quantitativo mai ottenuto, con una produzione pari a 16,5 milioni di quintali.

Anche l’uva esportata raggiunse i valori più elevati con circa 6,5 milioni di quintali. Da quell’anno in poi, le produzioni e le esportazioni degli anni successivi variarono, oscillando sempre attorno a questi valori e senza mai scendere al di sotto. 

Viticoltura e forme di allevamento

Prima del 1900, i vigneti venivano realizzati con la forma di allevamento del classico alberello pugliese, utilizzando un sesto di impianto quadrato con distanze tra le piante di circa un metro e 10 mila viti per ettaro. Tutti i lavori di eliminazione delle erbe infestanti, zappettature, trattamenti antiparassitari e raccolta venivano effettuati manualmente. Il tronco era alto circa 30 centimetri, solitamente con 4 branche, ognuna con 3-4 speroni di 2-3 gemme. I tralci si sviluppavano senza alcun sostegno e quindi in misura ridotta. Dove possibile si interveniva con ridotti apporti di acqua, letame o altri materiali organici, pertanto la resa di uva era di circa 50 quintali per ettaro. Anche i tralci a frutto non avevano sostegni e si sviluppavano liberamente. 

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Vigneti ad “alberello” adottati prima delle forme di allevamento a spalliera e a tendone

Negli anni successivi, si passò al vigneto a “spalliera”, scegliendo 2 tralci a frutto e legandoli su fili di ferro sostenuti da pali di legno.

Il vigneto assunse una forma regolare, con la predisposizione dei filari (disposizione lineare delle viti) distanziati tra loro circa 2 metri, che consentivano il passaggio delle prime attrezzature disponibili e di sostituire le lavorazioni manuali. Grazie a questo nuovo approccio, il numero di gemme utili per la fruttificazione aumentò come pure la produzione. In una fase successiva, per meglio sostenere l’uva, i tralci furono poggiati su filo di ferro.

Tappa fondamentale nella definizione della struttura del vigneto come la si conosce oggi fu quella firmata dal pugliese Vito Di Pierro di Noicattaro (BA). Dopo aver esercitato l’insegnamento elementare per alcuni anni, decise di lasciarlo per dedicarsi completamente all’attività agricola e commerciale. Attività che nel 1920 lo portò in Abruzzo, nel territorio di Ortona a Mare, per osservare le tecniche di coltivazione e la forma di allevamento alta adottata per la varietà  Mennavacca o Regina bianca. Al rientro, dopo numerosi tentativi per individuare una struttura solida, capace di sostenere il peso della produzione, si pensò all’allevamento della vite a «Tendone» o «Pergolato» o «Capanna abruzzese» o «Parral» degli spagnoli. Il primo impianto a tendone fu eseguito nel 1924 su due ettari del fondo denominato «La Serra», con la Regina bianca innestata sul portinnesto Berlandieri x Riparia 420/A. 

Progressivamente, la struttura a tendone fu migliorata aggiungendo ai pali di sostegno delle piante altri pali all’esterno a formare una tettoia a volta piana, sulla quale sistemare la vegetazione e la produzione delle piante situate fuori dei limiti del tendone. Negli anni successivi questa nuova forma di allevamento prese sempre più piede in diverse regioni dell’Italia meridionale. Essa infatti consentiva di eseguire meccanicamente i lavori e di effettuare la potatura con 4 tralci a frutto, con conseguente aumento della resa delle piante. 

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Selezione dei grappoli in casse di legno

Intanto, l’uva da tavola che l’Italia mandava all’estero era sempre più apprezzata: i Chasselas di Milazzo e quelli che si raccoglievano nel basso litorale barese non avevano nulla da invidiare ai Chasselas francesi; la Baresana di Bisceglie, l’Uva Regina della Romagna erano fra le migliori varietà di uve da tavola che si conoscevano. 

Il quadro che ne emerse fu chiaro. Inviare in Inghilterra uve ad acini piccoli o medi era inutile: non si sarebbero trovati compratori o il prodotto sarebbe stato venduto a prezzi insufficienti persino per recuperare i costi del trasporto. Se l’Italia voleva vincere la spietata concorrenza delle uve francesi, spagnole e portoghesi sui mercati della Svizzera, dell’Austria e della Germania doveva semplicemente puntare alla qualità della produzione locale

Dal punto di vista varietale, nel 1938 la diffusione in percentuale era la seguente: Regina bianca 31,1%; Chasselas 31,0%; Baresana 8,5%. A distanza di poco meno di un trentennio (nel 1960), la Regina bianca divenne la varietà italiana più diffusa rappresentando il 76,1% del totale di uva prodotta, seguita da Panse precoce (10,1%) e Regina dei Vigneti (4,6%). Intanto, iniziava a farsi strada la varietà Italia, coltivata nel 1960 soltanto per lo 0,5%. In misura minore, si producevano anche Bicane, Sultanina e Zibibbo

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Nel 1960 si ha la massima diffusione della varietà Regina Bianca (76%)

Il quadro cambiò a partire dal 1985, quando si registrò un ridimensionamento della superficie vitata coltivata a Regina bianca e un aumento considerevole per la varietà Italia.

A tal proposito, basti pensare che solo due anni dopo, nel 1987, la produzione pugliese era rappresentata per il 40,64% dalla cv Italia e per il 45,81% dalla Regina bianca. Più netta la predominanza in Sicilia, dove – negli stessi anni – la produzione di Italia raggiunse la massima diffusione, con l’80% dell’offerta viticola siciliana interamente occupata da questa varietà.

Di lì in avanti la storia del comparto si è sempre più arricchita, diventando parte integrante non solo dei diversi territori italiani e del loro patrimonio culturale, ma anche un’importante fonte di esperienze e prove sul campo da cui attingere per continuare a rendere la viticoltura italiana un punto fermo nella lunga narrazione dell’agricoltura made in Italy. 

A cura di Mario Colapietra
©uvadatavola.com

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