Organizzazione e programmazione: questi i due pilastri da cui partire per risollevare la viticoltura italiana. Al momento avvolto da qualche nube, grazie a questi due fattori, il comparto italiano dell’uva da tavola potrebbe aprirsi a cieli ben più rosei, garantendo alle uve del Belpaese il giusto valore, frutto di un più radicato legame con il territorio e un mirato lavoro di marketing.
Il futuro della viticoltura italiana non sempre appare facile da ipotizzare. Nuove richieste di mercato e nuove esigenze dei consumatori spesso collidono con un sistema ancora radicato alle tradizioni, dove fattori come organizzazione e pianificazione difficilmente riescono ad attecchire, impedendo a tutti gli addetti di caratterizzare territorialmente e qualitativamente un prodotto tanto centrale per l’ortofrutta italiana come l’uva da tavola.
Abbiamo approfondito il tema con Donato Fanelli, produttore di uva da tavola, responsabile commerciale della cooperativa Viva Frutta, membro del consiglio direttivo della Commissione Italiana Uva da Tavola (CUT) e coordinatore della OI Uva da tavola nell’ultimo numero di uvadatavola magazine.
Cosa c’è nel futuro della viticoltura italiana?
A mio parere, quello che si va delineando è uno scenario molto chiaro: pensare di passare da uva da tavola con seme a seedless senza due fattori determinanti quali organizzazione e programmazione porterà a un altro fallimento. Questo perché non è il mero cambiamento da una varietà all’altra che porterà valore al comparto viticolo, ma l’introduzione all’interno della gestione di due elementi come organizzazione e programmazione. Diversamente, fra qualche anno ci ritroveremo a dover fare i conti con gli stessi effetti nefasti di mercato che abbiamo avuto con le uve con semi.
A proposito di mercati, cosa chiedono oggi i Paesi europei?
Oggi i mercati europei chiedono sempre di più uve apirene, in linea con quelle che sono le richieste dei consumatori. Tuttavia non bisogna dimenticare che permangono dei segmenti di mercato ancora affezionati a varietà di uva con semi. A tal proposito, è bene sottolineare che l’Italia continua a essere una delle pochissime nazioni al mondo a produrre in maniera importante varietà di uva con i semi. In tal senso, se si guarda in ottica di programmazione, questo aspetto diventa fondamentale, perché in futuro pensare di produrre uva con semi di qualità potrebbe risultare vincente.
Per quanto riguarda le varietà seedless, invece, sarà importante dare loro una identità italiana: avremo sempre l’Autumncrisp® o altre varietà licenziate da qualche breeder, ma queste si produrranno ugualmente in Spagna, Egitto, Turchia, Sudafrica, Cile, Perù, California. E allora, fatto salvo il discorso stagionale, perché un consumatore dovrebbe scegliere l’uva italiana? Ecco dunque che di qui in avanti determinante sarà la connotazione del prodotto nelle sue caratteristiche più specifiche e quindi di legame con il territorio: solo così – di fronte a una stessa varietà – la scelta del consumatore potrà propendere per l’uno o l’altro prodotto.
Tornando alle varietà con semi, nonostante quello che potrebbe essere un investimento vincente per una fetta di mercato ben definita, il numero di ettari a loro dedicati in Italia comunque continua a calare.
Per rispondere e, in prospettiva, avviare una programmazione all’interno del comparto, sono indispensabili i dati. A tal proposito, quest’anno con la Commissione italiana Uva da Tavola per la prima volta abbiamo indetto un censimento: senza avere la reale fotografia della viticoltura italiana, con numeri e analisi alla mano, non si può pensare di fare previsioni o indirizzare le strategie. Al momento, abbiamo già censito 11.000 ettari della Puglia; in seguito, ci occuperemo della Sicilia. Ciò che emerge è che, negli ultimi tre anni, la percentuale di nuovi impianti di uve con semi è pari al 2%, a differenza di un 97-98% di impianti destinati alla produzione di uve apirene. Sulla base di questi primi dati, è chiaro che per le varietà con semi lo scenario risulta assai preoccupante e, al contempo, si conferma necessaria un’analisi di mercato accurata affinché si impiantino ancora uve con semi, ma in misura proporzionale a quello che richiede il mercato.
Per le varietà senza semi, invece, grazie al catasto si iniziano a delineare quelli che sono i parametri da seguire per i futuri impianti e quindi quale colore (se a bacca bianca, rossa o nera) o quali epoche di raccolta (se precoci, tardive o medio tardive) vanno per la maggiore. Perché, per fare un esempio, se si impiantano varietà molto precoci, il rischio è di scontrarsi con l’uva egiziana. Questa e molte altre sono tutte dinamiche che dobbiamo tenere in considerazione anche perché piantare un ettaro di uva da tavola oggi costa non meno di 60-70.000 euro e non è un investimento di poco conto.
In linea con quello che viene richiesto dal mercato, riusciremo ad adeguare anche le nostre tecniche di post-raccolta?
Bella domanda. Questo tema è la chiave di volta, perché per rispondere alle esigenze del mercato e dei consumatori saranno necessari due elementi. Prima di tutto bisognerà affinare le tecniche di produzione, e in secondo luogo sarà necessario avere delle organizzazioni aziendali che provvedano a tagliare e mettere il prodotto in conservazione per renderlo disponibile in diverse finestre temporali. Quest’ultima, in particolare, è decisiva per le uve senza semi: non siamo più alle prese con l’uva Italia che si poteva tenere in pianta da agosto fino a dicembre e talvolta persino gennaio. Le nuove varietà seedless sono come lo yogurt: hanno delle scadenze improrogabili e al momento giusto vanno tagliate e destinate alla conservazione. D’altra parte, la risposta del post-harvest dipende da quando l’uva viene tagliata e da come è stata condotta la gestione in vigneto. Per questo la tecnologia da sola non basta: se il prodotto ottenuto non presenta le caratteristiche idonee, pur disponendo di una macchina di conservazione del freddo eccellente, non si avranno miracoli.
Spostandoci nuovamente sul fronte mercati, quanto si rivelerà strategico intercettare l’Oltremare?
I Paesi d’Oltremare stanno diventando sempre più importanti in termini commerciali, anche perché – e torniamo a quanto si diceva prima – sono mercati che mostrano ancora particolare interesse per l’uva con semi. Basti pensare che negli Emirati Arabi richiedono sia Red globe che Italia, oltre che tutte le seedless. Anche in questo caso, però, sarà fondamentale differenziare il prodotto italiano. Come Commissione abbiamo già iniziato ad aprire dei dossier con Paesi come Taiwan e altre realtà del Far East, dove – anche in virtù della vicinanza con la Cina, primo Paese produttore di uva da tavola nel mondo – forte è la cultura dell’uva da tavola ed elevati i consumi. Per raggiungere questi obiettivi, però, sarà indispensabile avere una programmazione ben definita e, aspetto non secondario, anche una tecnologia e un’organizzazione tali da poter esportare in questi Paesi extra UE. Perché se non abbiamo questo come punto di partenza, anche stringere degli accordi rischia di rivelarsi fallimentare. Per dirla con una metafora, è come ambire alla serie A, ma non avere neppure la squadra per giocare in promozione.
Se si guarda il caso della Spagna, gli ettari sono inferiori, ma le loro produzioni riescono a essere più competitive sul mercato. Ad avvantaggiare la viticoltura spagnola sono sempre quelle due leve: la programmazione e l’organizzazione. Sostanzialmente nel Paese iberico ci sono 2 o 3 gruppi maggiori che accentrano la commercializzazione e programmano la produzione a seconda delle diverse aree territoriali: in determinate zone concentrano l’anticipo, in altre il medio tardivo e in altre ancora la produzione di uve a maturazione tardiva. Per riportare l’esempio alla nostra realtà, è come se un domani in Puglia si organizzasse la produzione in modo che nella zona del tarantino fino a Castellaneta si facesse l’anticipo, da Castellaneta a Rutigliano il medio-tardivo e a Foggia il tardivo. Al momento, però, basta andare nella sola provincia di Bari e ritrovi già tutto.
Al netto della situazione attuale, in futuro pensi saremo in grado di invertire questo trend?
Purtroppo se non ci diamo un’identità ci ritroveremo sempre a dover combattere per pochi centesimi. Se non puntiamo alla valorizzazione delle nostre uve, anche delle varietà licenziate senza semi, non potremo avere successo. Dovremmo cominciare a pensare a delle caratteristiche solo nostre, caratterizzanti proprio di quel tipo di uva pugliese e italiana. Non dobbiamo aspettare che qualcuno ci dica come dev’essere il nostro prodotto, ma investire su ciò che ci distingue. E quindi iniziamo a dire che l’uva fatta in questo territorio ha caratteristiche esclusive: il colore giallo dei suoi acini grazie al sole di Puglia, un gusto che ha il sentore dei frutti di bosco perché influenzato dal terroir pugliese. Questi sono solo esempi, ma guardando a quanto fatto per il vino, è evidente come la capacità di unire il prodotto al territorio diventi il vero discrimine. È chiaro che senza una promozione anche a livello di marketing, uve come la Crimson o la Carlita, l’Ivory o l’Allison – che siano prodotte in Italia o in Spagna – agli occhi del consumatore non presenteranno alcuna differenza, se non il prezzo di vendita al dettaglio.
In Italia, la produzione di uva da tavola va avanti da oltre un secolo, ma dobbiamo riprendere in mano la situazione e porre le basi affinché il cambiamento, e quindi l’innovazione, unitamente alla tradizione e all’esperienza accumulata fino ad oggi, permetta davvero di guardare al futuro con uno spirito rinnovato.
Ilaria De Marinis
©uvadatavola.com