Gli endofiti microbici sono organismi solitamente non patogeni, che trascorrono un periodo della loro vita nei tessuti vegetali, dove instaurano una relazione molto intima con le piante. A trarre vantaggio da questa relazione non sono solo gli endofiti, ma anche le colture che incrementano la propria tolleranza o resistenza agli stress abiotici. A parlarne, nel numero di giugno-luglio di uvadatavola magazine, Vincenzo Michele Sellitto – agronomo, Accademico dei Georgofili e Professore presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Timisoara.
L’agricoltura è il settore più a rischio e soggetto a subire le gravi conseguenze dei cambiamenti climatici, tanto che si stimano effetti correlati su quasi tre quarti della produzione agricola mondiale – di colture chiave per il sostentamento della popolazione – entro il 2050. Ondate di calore atipiche e grandinate frequenti e intense hanno effetti devastanti sulla vita delle piante, incrementando anche la loro suscettibilità a patogeni e parassiti. La riduzione di suolo coltivabile, associata all’espansione urbana e alle cattive pratiche di gestione del territorio, ha portato il mondo della ricerca a esplorare pratiche agricole innovative con l’obiettivo di contrastare questi fenomeni.
In tal senso, l’uso dei microrganismi in agricoltura promette di fornire soluzioni efficaci, rispettose dell’ambiente e che garantiscono la sicurezza alimentare.
Tuttavia, si devono ancora comprendere meglio i meccanismi alla base delle interazioni tra microrganismi e piante, come quelle che si hanno nel caso degli endofiti. Ad oggi, numerosi studi confermano gli aspetti positivi della colonizzazione endofitica da parte di funghi e batteri sulle colture in termini di protezione delle piante da stress abiotici come siccità, temperature estreme e salinità, con benefici diretti (acquisizione di nutrienti, produzione di fitormoni) e indiretti (resistenza indotta, produzione di antibiotici e metaboliti secondari, produzione di siderofori).
Cosa sono gli endofiti?
Gli endofiti sono organismi generalmente non patogeni, che vivono all’interno dei tessuti vegetali per almeno una parte del loro ciclo vitale. Considerato che il termine “endofita” si riferisce all’habitat e non alla funzione, sotto questa accezione rientrerebbero quei microrganismi che per tutta o una parte della loro vita colonizzano internamente i tessuti vegetali (endosfera). Per gli endofiti, l’endosfera è una nicchia protetta, che contiene i nutrienti necessari per la loro sopravvivenza e crescita, oltre a rappresentare una zona in cui è bassa la competizione con altri microrganismi. In cambio di questo luogo sicuro, gli endofiti possono migliorare lo stato di salute delle piante. Tutte le piante, infatti, sono abitate internamente da comunità microbiche di batteri, funghi, archaea ed eucarioti unicellulari, come le microalghe. Alle diverse parti della pianta (radici, steli, foglie, semi) sono associate caratteristiche comunità microbiche, che variano per biodiversità e composizione. La maggior parte degli endofiti sono reclutati principalmente nel suolo dalle radici e da queste salgono attraverso l’apoplasto nei vasi xilematici raggiungendo gli steli e le foglie.
Non sorprende, quindi, che i microbiomi dell’endosfera di foglie e germogli si sovrappongono significativamente con quelli delle radici sia da un punto di vista tassonomico, che funzionale. L’endofitismo è il risultato di milioni di anni di coevoluzione che ha portato le piante a stabilire una relazione continua con i microrganismi, migliorando la loro capacità di far fronte agli stress e facilitare la loro crescita e sviluppo. Si stima che esistano più di 1 milione di specie endofite in 300mila diverse specie di piante, ma solo una piccola frazione è stata isolata per lo studio del ruolo svolto all’interno delle piante.
“Un esempio di coevoluzione sono le simbiosi pianta-fungo micorrizico (AMF) che si sono verificate durante la colonizzazione della terra da parte delle piante terrestri”.
“L’associazione tra AMF e piante si è evoluta come simbiosi facilitando l’adattamento delle piante all’ambiente terrestre. I più antichi fossili oggi conosciuti, prelevati da rocce dolomitiche che si stima abbiano 460 milioni di anni, sono funghi terrestri con proprietà simili a quelle degli attuali AMF. A confermarlo la teoria secondo cui gli AMF terrestri esistevano già al tempo in cui piante inferiori, simili alle briofite, coprivano la terra. Si presume, inoltre, che inizialmente non ci fossero interazioni strette tra piante e funghi e che il loro rapporto si sia evoluto per far fronte a limiti nutrizionali. Non è ancora noto, infatti, se i primi AMF fossero già simbionti mutualistici o se gli stili di vita mutualistici si siano evoluti a partire da forme patogene. A prescindere da queste dinamiche, però, è certo che gli spazi interni delle piante sono per i funghi colonizzatori habitat importanti e che specifici strati tissutali si sono evoluti portando alla formazione di arbuscoli, strutture tipiche delle interazioni tra pianta e AMF. In questo modo gli AMF hanno sviluppato un ciclo di vita obbligato, perché sono diventati dipendenti dal loro ospite, fonte di energia. D’altra parte, le ife intraradicali hanno aumentato la superficie totale della radice della pianta ospite, consentendole un maggiore assorbimento di nutrienti, come il fosforo (P). Infine, a dimostrazione del fatto che almeno segmenti di popolazioni endofite batteriche e fungine si sono coevolute tra loro e con il loro ospite è giunta la scoperta di legami genetici tra l’associazione delle piante con funghi micorrizici arbuscolari (AMF) e le simbiosi dei noduli radicali caratteristici delle leguminose con il rizobio”.
A cura di: Vincenzo Michele Sellitto
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