Approcci diversi sul tema dei residui, Antonello Lepore propone: coinvolgere, analizzare e migliorare

Le diverse visioni sul tema dei residui tra il mondo tecnico agronomico e le catene di distribuzione.

da Redazione uvadatavola.com

L’agronomo Antonello Lepore è Quality Manager e coordinatore del Dipartimento Qualità per Orchidea Frutta Srl, azienda fondata negli anni ‘60 che opera nel settore del commercio dell’ortofrutta.

Antonello Lepore, lavorando all’interno di un magazzino di ortofrutta, rappresenta l’anello di congiunzione tra il campo e la GDO. Iniziamo così il nostro viaggio volto a comprendere meglio le diverse visioni sul tema dei residui tra il mondo tecnico agronomico e le catene di distribuzione.

Quali sono le difficoltà che sei chiamato ad affrontare per far sì che i prodotti da commercializzare siano conformi alle richieste della GDO?

In questo ruolo spesso mi sembra di giocare a Risiko…
La nostra attenzione è per lo più rivolta alla produzione. I disciplinari vengono condivisi con i fornitori delle materie prime: gli agricoltori. Seguiamo la filiera sin dal campo, gestendo il tutto dal punto di vista tecnico-agronomico. Lavorando con la GDO abbiamo necessità di organizzare un servizio tecnico che sia il nostro occhio vigile in campo sin dalle prime fasi fenologiche. Ovviamente non sempre è possibile avere tutto sotto controllo. Ci sono infatti dei momenti – durante la campagna – in cui c’è necessità di reperire un determinato prodotto con precise caratteristiche qualitative, al fine di soddisfare la richiesta dei clienti. Talvolta tutto ciò deve avvenire in un arco temporale ristretto. In questi frangenti l’esportatore acquista il prodotto sulla pianta a condizione che il profilo residuale sia conforme alle specifiche tecniche della catena distributiva di turno.

Un altro aspetto è la gestione dei risultati analitici. Spesso ci troviamo a fronteggiare situazioni in cui “la partita” si gioca su valori bassi di mg/kg; ovvero milligrammi di sostanza in un chilogrammo di prodotto agricolo.

Si tratta di valori talmente piccoli che possono variare a seconda delle modalità prescelte per il campionamento in campo. Se avessimo tra produttore, fornitore e GDO una procedura armonizzata in grado di abbassare l’incertezza del dato analitico finale sarebbe una bella conquista.

La variabilità del dato è accentuata nel momento in cui il prelievo del campione del prodotto avviene ad opera di un laboratorio “terzo” (incaricato dalla catena distributiva) con una modalità diversa rispetto a quella standard.
È importante ricordare anche che il dato analitico deve essere sempre accompagnato da una corretta interpretazione.

Il risultato analitico, inoltre, può trarre in inganno a causa di numerosi fattori:

  • campionamento non rappresentativo;
  • errore nella preparazione del campione;
  • contaminazione delle apparecchiature;
  • reagenti di bassa qualità o metodo analitico non adeguato.

Altro capitolo è quello degli standard certificativi (o certificazioni volontarie).
La GDO attraverso le Private label – negli anni – ha voluto innalzare l’asti cella della qualità e incrementare il controllo lungo tutta la filiera produttiva.

Questo ha portato le catene distributive a richiedere requisiti sempre più dettagliati e una documentazione sempre più precisa e complessa. Un esempio è l’irrigidimento nei confronti dei produttori agricoli e dell’intera filiera nell‘imporre disciplinari e capitolati di fornitura che nella pratica sono difficilmente applicabili.

Per questo aspetto è necessario che l’azienda (sia agricola che ancor di più commerciale) intraprenda il percorso delle certificazioni. La certificazione è garanzia di qualità, ed è ormai imprescindibile per chi opera con la GDO nazionale e internazionale. Essa rende più agevole l’applicazione dei capitolati e dei disciplinari di fornitura che vengono concordati con le singole catene.

Sottoporsi a un processo di certificazione significa per l’azienda adottare una struttura precisa e mantenerla nel tempo. Però spesso nel nostro settore ciò che convince le aziende a iniziare l’iter di certificazione è la richiesta diretta
del cliente o la necessità di entrare nella lista fornitori qualificati di altre aziende. Successivamente potrebbe accadere che, impostando la gestione di un sistema aziendale, si scopra che il beneficio coinvolge tutta l’azienda e le sue risorse (economiche, umane, strutturali, organizzative etc.). In realtà ci si augura sempre che la scelta, più o meno volontaria, di un’azienda verso queste certificazioni porti all’implementazione di un sistema di gestione efficiente: una garanzia di affidabilità per clienti, fornitori, dipendenti e collaboratori.

In tutto ciò il nostro ruolo è far incontrare non solo domanda e offerta, ma intercettare le esigenze della GDO e metterle in relazione con le problematiche della base produttiva, per immettere sul mercato un prodotto: sicuro dal punto di vista igienico, conforme alle specifiche tecniche, sostenibile e certificato.

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Secondo te c’è una via d’uscita a questo “corto circuito” che si è venuto a creare tra le esigenze dei diversi attori?

A mio avviso bisognerebbe lavorare seguendo queste tre direttrici: coinvolgere, analizzare e migliorare.

Coinvolgere i produttori inserendoli in progetti di filiera organici, grazie ai quali si costruisce un rapporto fiduciario. Attraverso l’organizzazione di un servizio tecnico in grado di seguire la produzione, possiamo inoltre ridurre o eliminare l’uso di sostanze che possono avere impatto negativo
sull’ambiente.

Analizzare gli indicatori dell’implementazione del programma di filiera e stabilire gli obiettivi. Per esempio l’utilizzo del della confusione sessuale per Lobesia botrana (tignoletta dell’uva da tavola) ha l’obiettivo di ridurre l’uso di prodotti chimici per la difesa contro questo insetto chiave e, nel contempo, potrebbe avere un risvolto positivo sulla protezione degli insetti utili. Oppure optare per seguire la strategia “residuo zero”, strategia che seleziona e limita l’uso di prodotti ottenuti da sintesi chimica. Questa precisa linea di difesa utilizza solo agrofarmaci che abbiano un minor impatto ambientale e con un profilo residuale molto basso. L’obiettivo è quello di ottenere ortofrutta con la presenza di prodotti fitosanitari di sintesi chimica al di sotto dello 0,01 mg/kg e comunicare facilmente la salubrità del prodotto al consumatore finale per mezzo di precisi loghi, diciture e packaging.

Migliorare le linee di difesa tenendo conto delle nuove tecniche colturali per lavorare in sinergia con tecnici e produttori. In questo caso l’obiettivo sarebbe quello di contenere l’impatto ambientale del settore. Con particolare attenzione alla gestione della risorsa idrica e all’utilizzo razionale dei fitofarmaci. Le criticità tecniche sono molteplici e una strategia di questo tipo necessita di professionisti specializzati, ma soprattutto di una struttura aziendale in grado di supportarli con risorse umane ed economiche. Non immagino che questo tipo di strategia possa sostituire in tempi brevi quelle tradizionali. Ma la strada da intraprendere – a mio avviso – è questa. All’interno delle aziende dovrebbe cominciare a farsi largo una nuova idea di filiera. Così che da parte della Grande Distribuzione Organizzata possa esserci un riconoscimento concreto ed una valorizzazione degli sforzi del comparto produttivo.

Autore: Teresa Manuzzi
Copyright: uvadatavola.com

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