Con l’agronomo Giacomo Mastrosimini approfondiamo i funghi micorrizici: scopriremo come si suddividono e quali sono i pregi e i difetti di questi alleati delle piante e dei produttori. Ad oggi le micorrize vengono usate molto raramente nelle coltivazioni in pieno campo e tantomeno nei vigneti ad uva da tavola. Sempre più studi però confermano gli innumerevoli benefici che questi funghi sono in grado di offrire al terreno, alle piante e ai frutti prodotti da piante micorrizate.
Con Giacomo Mastrosimini – agronomo ed esperto di biologico – cerchiamo di conoscere meglio questi microrganismi in grado di supportare le piante.
Quali e quante tipologie di micorrize ci sono?
Le micorrize vengono suddivise principalmente in due gruppi: le “ectomicorrize” e le “endomicorrize”. Le prime colonizzano la parte esterna delle radici e sono responsabili della micorrizazione della maggior parte delle piante di interesse forestale. Esse sono facilmente distinguibili anche perché molte danno origine ai classici funghi di cui anche noi ci nutriamo. Il secondo gruppo – le “endomicorrize” – viene a sua volta suddiviso in micorrize “elicoidi” – delle orchidee – e “arbuscolari”. Le micorrize arbuscolari sono le più importanti per l’attività agricola, perché entrano in simbiosi con le piante coltivate, sia arboree che erbacee. Esse svolgono un ruolo importante nel migliorare le funzioni delle piante, pertanto sono anche le più studiate. Le micorrize arbuscolari formano dei reticoli in grado di interconnettere più piante. Quando si dice che le piante, per mezzo delle radici, entrano in connessione tra loro, lo fanno proprio grazie alle micorrize, le quali moltiplicano e sviluppano il reticolo radicale. Questi funghi, inoltre, riescono talvolta anche ad associarsi con alcuni gruppi di batteri, con i quali possono agire in forma sinergica.
Tutto ciò ha dei risultati positivi sulla produzione?
Sì, perché da diversi studi emerge che le micorrize favoriscono l’assorbimento degli elementi nutritivi – tra cui fosforo, zolfo e ammonio. Inoltre non bisogna sottovalutare che le piante micorrizate si mostrano più resistenti agli stress abiotici (freddo e siccità) e biotici (malattie fungine o batteriche). Questi funghi “amici” delle piante contribuiscono al miglioramento dell’aggregazione delle particelle del suolo e di conseguenza, al miglioramento della struttura del suolo. Ciò accade grazie alla glomalina: una glicoproteina, scoperta e studiata solo da qualche anno. In realtà essa è un ammasso di glicoproteine con all’interno diversi ioni, tra cui gli ioni ferro. La glomalina è in grado di aggregare le particelle del suolo e formare delle particelle glomerulari, che favoriscono un miglioramento della struttura del terreno. Tutto ciò vuol dire migliorare la porosità del suolo, l’aerazione e facilitare l’esplorazione da parte delle radici. Bisogna anche tenere conto che la glomalina, una volta prodotta, impiega dai sette ai quarant’anni per degradarsi naturalmente. Conoscere questo passaggio è fondamentale perché significa che anche in caso di morte delle micorrize, la glomalina rimane. Gli effetti delle piante micorrizate possiamo vederli anche all’interno dei frutti che produrranno. Una vite micorizzata produrrà uva con acini con un maggior numero di sostanze nutraceutiche, come polifenoli ed antociani. Infine, ma non per importanza, le micorrize contribuiscono a ridurre l’emanazione – da parte del terreno – di protossido di azoto, gas ad effetto serra che viene prodotto in seguito a concimazioni azotate.
Utilizzare le micorrize rappresenta quindi un investimento per le produzioni del futuro. Quali sono le micorrize più utilizzate per le colture arboree?
Le micorrize arbuscolari – come accennato in precedenza sono le più importanti e vengono utilizzate anche dal punto di vista commerciale. Tra queste ritroviamo:
- Glomus mosseae;
- Glomus aggregatum;
- Glomus intraradices;
- Glomus entunicatum;
- Glomus deserticola;
- Glomus clarum;
- Glomus monosporum.
I prodotti in vendita, solitamente, hanno solo una delle micorrize citate, e tra queste le più vendute in assoluto sono Glomus intraradices e Glomus mosseae, perché sono le più facilmente riproducibili e quelle che mostrano le performance migliori. Bisogna però tenere conto di una cosa estremamente importante: nel momento in cui pongo una micorriza all’interno del terreno, questa dovrà fare i conti con il microbiota “autoctono” del suolo. Ovvero con altri microrganismi e micorrize indigene che ovviamente contrasteranno le nuove arrivate. Questo passaggio rappresenta una criticità per l’uso delle micorrize in pieno campo. Per cercare di risolvere il problema, solitamente, si ricorre a prodotti che prevedono dei “consorzi” di micorrize. Ovvero si distribuiscono al suolo più specie possibili, così se ne muore una, ce ne sarà un’altra. In alternativa si sceglie la singola specie di micorriza che abbia la caratteristica specifica per migliorare un aspetto in particolare, ad esempio la salinità (come la Glomus deserticola) o un altro tipo di stress. Il principio dei consorzi, dei microrganismi in generale e delle micorrize in particolare, funziona così: distribuirne più di uno, così all’interno del microbiota del terreno ognuno di questi potrà svilupparsi più o meno positivamente e mostrare almeno un risultato.
Da momento in cui si distribuiscono le spore, dopo quanto tempo è possibile apprezzarne i risultati?
Se parliamo delle specie arboree è opportuno aspettare un mesetto. Il percorso è il seguente:
- Fase 1: Distribuzione delle spore al terreno;
- Fase 2: Germinazione delle micorrize;
- Fase 3: Micorrizzazione della radice della pianta;
- Fase 4: Visualizzazione dei primi effetti benefici.
Ci sono dei momenti più indicati per la distribuzione, avviene una sola volta o più volte?
Solitamente il periodo più indicato è il trapianto, perché così riusciamo a mettere la micorriza a diretto contatto con le radici in modo da mitigare lo stress che la pianta subisce nel momento in cui viene messa a dimora. Però è possibile anche effettuare altre distribuzioni durante gli anni successivi alla realizzazione dell’impianto. In un ambiente diverso da quello naturale, quindi, in un vigneto o in un frutteto, sicuramente somministrare più volte le micorrize può giovare. Il nostro obiettivo, però, è far sì che la micorriza possa proliferare da sola.
Visto che sei esperto di inerbimenti, per migliorare la struttura di alcuni terreni, può essere opportuna l’associazione inerbimento/micorrize?
Le micorrize sono ospiti obbligati, cioè possono vivere solo se riescono a micorrizzare la radice della pianta. Il fungo e la pianta entrano in simbiosi mutualistica: la micorriza estrae fosforo, ioni ammonio e altri micronutrienti dal terreno e li trasporta verso la radice della pianta, in cambio ottiene dalla pianta acidi grassi, e quindi energia, attraverso catene lipidiche che le consentono di sopravvivere. Per essere più precisi è bene puntualizzare che nel terreno c’è fosforo in abbondanza, ma è immobilizzato e non riesce a essere assimilato dalle piante. La micorriza invece riesce a solubilizzare fosforo insolubile, trasferendolo alla pianta. Detto questo – quindi – tante più radici ci saranno nel terreno, tanto più la micorriza potrà svilupparsi. Che siano radici della vite, essenze vegetali naturali o appositamente seminate, poco importa. Ricordiamoci, come detto in precedenza, che oltre a migliorare l’assorbimento dei nutrienti le micorrize producono glomalina: questa sostanza è molto importante per il miglioramento della struttura del suolo.
Ci sono delle azioni che sono sconsigliate? Ad esempio, se uso le micorrize devo evitare alcuni formulati che possono mettere in pericolo la vita delle micorrize?
Usare fungicidi al suolo è sconsigliatissimo, perché la micorriza è un fungo e morirebbe. Un’altra precauzione è ridurre l’introduzione di fosforo nel terreno, perché la pianta – per poter nutrire le micorrize – deve investire delle energie suppletive. Tutto ciò viene fatto molto volentieri dalla pianta, nel momento in cui la micorriza le “ricambia il favore” agevolando l’assorbimento del fosforo, elemento che – come già descritto – la pianta riesce ad assorbire con difficoltà. Pertanto – in terreni con concentrazioni di fosforo e ammonio molto basse – la pianta decide di instaurare una relazione con la micorriza. Le conviene investire un po’ di energie in più in cambio di un elemento che normalmente non riuscirebbe ad assorbire. Nel momento in cui – invece – andiamo a fertirrigare con fosforo e nitrato, la nostra pianta – riuscendo ad assorbire questi elementi molto più facilmente – decide di sopprimere la micorriza. Quindi in terreni dove si effettuano troppe concimazioni a base di fosforo, la simbiosi tra radice e micorriza non avviene. La micorriza senza scambio muore e questo è anche il motivo per cui il microbiota del terreno tende a degradarsi e a ridurre la sua fertilità con il tempo. La concimazione rientra in una di quelle pratiche antropiche che rende la vita dei microrganismi molto più dura rispetto al normale.
Ci sono delle conseguenze negative date dall’utilizzo di questi funghi?
Solitamente si può registrare una piccola regressione dell’accrescimento delle piante nelle prime fasi, ovvero quando la micorriza “infetta” le radici. Dopo pochissimo tempo, però, la pianta riceve dei benefici e alla fine del ciclo colturale la pianta micorrizata mostra un vigore maggiore rispetto a quella non micorrizata.
Anche le arature potrebbero costituire un pericolo per le micorrize?
Non è ancora chiaro, ma con molta probabilità sì. Se volessimo immaginare un ipotetico protocollo tecnico per far sì che la micorriza viva più a lungo possibile e possa lavorare anche per tutta la vita del vigneto attraverso una sola somministrazione radicale, bisogna:
- ridurre al minimo le arature del vigneto;
- incentivare l’inerbimento;
- favorire la disponibilità idrica;
- buone condizioni ambientali;
- ridurre al minimo l’uso di fosforo.
Pertanto, affinché le micorrize possano vivere e proliferare, è necessario rivedere il sistema di conduzione del nostro frutteto o vigneto nella direzione indicata da questo elenco di buone pratiche.
Autore: Teresa Manuzzi
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