Aumentano i costi di produzione e dei fertilizzanti. Quali sono le cause? Le soluzioni del Governo sono sufficienti? Cos’altro si potrebbe fare?
Ne parliamo con Gabriele Canali, professore di “Economia e Politica Agraria” presso l’Università Cattolica di Piacenza.
Il professore, nel corso di un incontro promosso la scorsa settimana da Gowan Italia a San Salvo (Ch), ha preso la parola approfondire il seguente tema: “Materie prime e filiera agro alimentare: scenario di mercato e prospettive”. Noi di uvadatavola.com ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.
Professore, quali sono le cause dell’aumento dei costi dell’energia e dei fertilizzanti?
L’aumento dei costi di produzione – che negli ultimi mesi sta preoccupando gli agricoltori – è dovuto all’aumento del prezzo del petrolio. La tendenza al rialzo del costo del greggio è cominciata a fine estate 2021, quindi non è connessa con la crisi Ucraina. I Paesi produttori hanno sin da allora hanno tentato di recuperare le perdite avute durante il lockdown. In quei mesi, infatti, il prezzo del barile era crollato a causa dell’arresto delle attività produttive. Le azioni dei petrolieri si sono riverberate anche sul gas naturale. I costi energetici si sono quindi trasferiti – con immediatezza ed evidenza – anche sui costi dei fertilizzanti e in particolare sui fertilizzanti azotati, che sono molto energivori. Ciò ha trascinato in su anche il prezzo degli altri fertilizzanti. Tutti questi elementi creano – giustamente – preoccupazione negli agricoltori.
Quali sono le conseguenze di quello che ha appena descritto?
Questa crisi ha generato un aumento dei costi per le materie prime agricole: cereali, soia e granaglie. Gli agricoltori – in prospettiva – pensano di gonfiare i prezzi al momento della vendita. Ma parliamo di un’azione ipotetica, perché i produttori non hanno ancora raccolto nulla. L’aumento dei prezzi alla vendita potrebbe controbilanciare gli effetti negativi dei costi; bisogna però capire cosa accadrà nei prossimi mesi con l’avvicinarsi della raccolta. L’arrivo di produzioni abbondanti – ad esempio di grano duro in Canada – potrebbe avere anche delle ricadute negative sui prezzi di vendita.
Il vero problema a mio avviso è che ci sono produzioni, come quelle zootecniche, che impiegano i cereali come fattore di produzione. Si tratta di aziende che già ora sono in grande difficoltà. Questo perché le materie prime vedono costi altissimi, a causa della loro disponibilità relativa e approvvigionamento rallentato. Tra i diversi settori la zootecnia è quella che sta soffrendo di più.

In foto Gabriele Canali, professore di “Economia e Politica Agraria” presso l’Università Cattolica di Piacenza.
Tra le misure approvate in tutta fretta dal Governo troviamo anche la possibilità di usare il digestato come fertilizzante, secondo lei potrebbe essere effettivamente una soluzione per i produttori?
Due sono le misure prese, di carattere sia nazionale che europeo: il via libera all’uso di digestato come fertilizzante e la coltivazione delle superfici “ a riposo”.
La possibilità di utilizzare il digestato è una soluzione che potrebbe avere una sua rilevanza, visto che si tratta di un prodotto in grado di apportare delle unità azotate. Si tratta però di una soluzione percorribile solo laddove c’è digestato. Ovvero dove ci sono maggiori impianti di biogas, di conseguenza dove già c’è della produzione importante perché si tratta di un elemento che non è trasportabile per lunghe distanze. Inoltre non bisogna trascurare il fatto che con digestato bisogna stare molto attenti al momento della distribuzione che dovrà essere attenta e non molto intensa, perché gli effetti sui diversi tipi di terreni non favorevoli al 100% per le produzioni.
Circa l’altra soluzione proposta dal governo, ovvero la messa in coltivazione delle superfici dedicate all’ Ecological Focus Area (EFA), si tratta del 5% delle superfici destinate ai seminativi. Aree che gli agricoltori erano costretti a tenere a riposo. Questo potrà consentire un qualche recupero produttivo nell’immediato. Ma è chiaro che stiamo parlando di zone non particolarmente produttive, ma marginali pertanto non molto produttive.
Ci sono delle altre soluzioni che secondo Lei è opportuno mettere a punto?
L’emergenza maggiore – a mio avviso – è la disponibilità di materie prime per la zootecnia. Nella situazione attuale l’Europa è autosufficiente per il frumento tenero, nonostante i blocchi dei prodotti di provenienza ucraina e russa. Quindi le difficoltà attuali sono legate per lo più allo spostamento di flussi commerciali. L’impatto maggiore lo si avverte per lo più su mais e soia, che importiamo scarsamente dalle zone di conflitto, perché a noi giunge merce soprattutto da Nord e Sud America. La pressione maggiore al momento ricade sulla zootecnia e a mio avviso sarebbe stato meglio dare una spinta maggiore per la produzione di mais. Per il mais c’è un potenziale produttivo molto forte, basti pensare che nel 2004 in Italia avevamo un milione e 200 mila ettari, mentre nel 2021 ne abbiamo coltivati a mais da granella poco più della metà. Quindi c’è un potenziale produttivo che avrebbe potuto far avvantaggiarci. I produttori di mais oggi vedono prezzi elevati e sono attratti, ma considerando la scarsità idrica e il costo dei fertilizzanti l’incertezza può rappresentare un vincolo molto forte. Avrei gradito delle misure di emergenza più rilevanti per colture come mais e girasole.
In tutto questo c’è un barlume di speranza?
In questo contesto i punti di forza del nostro Paese non sono colpiti, quindi penso all’ortofrutta fresca e trasformata. Le produzioni ad alto valore aggiunto, sono le meno colpite da questa situazione. Indubbiamente esiste una tensione sui costi di produzione ma – essendo generalizzata – il mercato dovrebbe riuscire a gestirla.
Autrice: Teresa Manuzzi
©uvadatavola.com