Cosa lega l’uva al territorio?

Con gli agronomi di Agronominvigna e di Agriproject approfondiamo il terroir attraverso un progetto mirato a rinsaldare il legame dell'uva con il territorio.

da Silvia Seripierri

Gli agronomi dello Studio Associato Agronominvigna ci aiutano a comprendere meglio il concetto di terroir. Nella seconda parte dell’articolo, invece, con l’agronomo Michele Fioretti approfondiamo un progetto che mira proprio a rinsaldare il legame del prodotto uva da tavola con il territorio in cui viene prodotto.

Parlare di terroir è semplice, soprattutto per chi è nato e cresciuto all’ombra di questa definizione francese, che calza bene anche per la realtà viticola italiana. Tuttavia la definizione di terroir rimane ambigua. La parola, che potrebbe essere banalmente tradotta come “suolo”, “terra arabile” o “paese natale”, sintetizza infatti un concetto ben più vasto.

Una delle prime definizioni più complete di terroir è apparsa nel “Dizionario Universale” di Antoine Furetière nel 1960, quando alla parola è stato associato il concetto di qualità della terra e di corretto adattamento e sviluppo delle piante.

Solo in seguito, con l’avvento dell’agronomia moderna, il terroir è stato associato direttamente alla produzione agricola, per arrivare poi a definirlo “fattore unico e inimitabile” che incide sulla qualità finale delle uve. Tuttavia, limitare il concetto di terroir ai soli aspetti produttivi, pur essendo nota e riconosciuta la vocazione qualitativa di alcuni distretti viticoli, non esaurisce il significato di questo termine. L’ambito produttivo, infatti, non è esaustivo dell’accezione più ampia, che oggi questa parola esprime. Alle già citate caratteristiche primarie del terroir si uniscono, per esempio, l’organizzazione sociale, che permea il sistema economico locale e ne perpetua la sopravvivenza, il contesto antropologico originale e l’ideale collettivo di valori ad esso legato che è alla base dello stesso concetto di identità territoriale. A fronte di tutto ciò, è quindi difficile racchiudere in poche parole il concetto di terroir, che accoglie anche tutta una serie di valori simbolici vettori della sua stessa comunicazione: qualità, identità, legame e tipicità.

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Vigneto di uva da vino a Roseto degli Abruzzi in Abruzzo

Sulle sue origini

Il termine terroir ha un’origine molto antica. Già i Romani utilizzavano l’espressione genius loci per definire un luogo da dove proveniva un prodotto di qualità eccelsa. Il concetto indicava, più precisamente, l’entità (genio) naturale e soprannaturale legata a un luogo abitato e frequentato dall’uomo. Christian Norberg-Schulz a tal proposito scrisse: “L’insieme dei significati radunati dal luogo (che) costituiscono il suo Genius Loci”. Mentre i Greci antichi prediligevano coltivare la vite in luoghi dove cresceva rigogliosa la macchia mediterranea, i Romani furono in grado di introdurre la vite in vari contesti, diversificando la produzione dei vini in più territori.

Il concetto di terroir è stata la molla per lo sviluppo delle prime Denominazioni di Origine. Le prime indicazioni sulle zone migliori vocate alla produzione del vino hanno iniziato a prender forma nel ‘700 con il Tokaji , il Chianti e il Porto. Oggi, le stesse Denominazioni di Origine a livello europeo trovano nel sistema promozionale dei terroir, delle zonazioni e dei cru, la linfa necessaria per continuare ad affermarsi sul mercato mondiale. Questo a differenza della “nuova” viticoltura, che molto spesso fonda la sua fortuna e identità sulle varietà internazionali più che sui territori. Un po’ come se la genetica della cultivar fosse un fattore identitario più forte di quello geografico. La natura geologica e la pedologia dei siti vitati sono stati da sempre riconosciuti quali fattori determinanti per la qualità generale del vino. Al tempo stesso, però, in un’ottica europea, diffusa nelle regioni viticole più importanti, solo la sapiente gestione della pianta e della sua produzione da parte del viticoltore è in grado di interpretare la mutevolezza dei fattori climatici favorendo la qualità.

I fattori del terroir

Per le ragioni esposte, il classico modello che definisce il terroir comprende tre fattori: terreno, varietà e clima. Essi occupano idealmente gli angoli di un triangolo al centro del quale c’è l’attività umana. L’uomo coltiva e rende unica nel suo genere quella particolare zona di produzione (o terroir) attraverso i contributi apportati dall’ambiente sociale, dalle tradizioni, dai gusti dei consumatori locali, dai sistemi di produzione consolidati e da molto altro ancora. Questo modello resiste da decenni e rappresenta una sintesi efficace delle relazioni, che sono l’anima di un vero terroir. Tuttavia, alla luce delle moderne acquisizioni sui rapporti che si instaurano nel “sistema vigneto”, il modello triangolare sta cedendo il passo ad uno quadrangolare, più nuovo e più complesso.

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Vigneto di uva da vino del vitigno Grenache a Châteauneuf-du-Pape in Francia

Considerando le relazioni esistenti all’interno della rizosfera tra le radici della vite e il complesso di microrganismi presenti e interagenti, è possibile, infatti, immaginare un quarto vertice del modello, rappresentato dal microbioma tellurico. Quest’ultimo è l’interfaccia attiva tra la pianta e il terreno ed è in grado di influenzare la connessione tra vite e suolo. Il microbioma tellurico condiziona la “lettura” dell’ambiente da parte della pianta e risulta quindi determinante per la qualità territoriale delle uve e quindi del vino. Il microbioma della rizosfera, quindi, può essere considerato come il tassello mancante nella modellizzazione del terroir, poiché è in grado di modificare la disponibilità dei nutrienti per la vite, elicitare i meccanismi di resistenza delle piante e modificare la captazione dell’acqua, favorendo la resistenza alla siccità. Tutti questi effetti permettono di esaltare la vocazione di un sito produttivo, la complessità delle uve e la resilienza delle piante agli stress. L’uomo, fattore centrale del terroir, non può più ignorare l’importanza della rizosfera, ma deve considerarla al pari del suolo, del clima e della varietà. Solo tenendo presenti tutti questi fattori il viticoltore può davvero esaltare gli effetti delle specifiche caratteristiche territoriali sul vino ivi prodotto.

Oltre l’uva da vino

Il concetto di terroir è nato con la viticoltura da vino, ma si sta allargando anche ad altri comparti come l’olivicoltura, il settore caseario e quello delle produzioni tropicali (come cioccolato e caffè). È, quindi, auspicabile che anche il comparto dell’uva da tavola si lasci ispirare. Il terroir, infatti, è un concetto vasto, capace di accomunare tutte quelle produzioni agricole in cui la qualità finale dipende non solo dal mero substrato di coltivazione, ma da un insieme di fattori esaltati o creati dall’intervento dell’uomo nel corso del tempo.

Uva da tavola e terroir: il progetto pugliese

In seguito all’interessante approfondimento letto fin qui e firmato dagli agronomi Fabio Burroni e Marco Pierucci, si può citare un lavoro che è stato svolto su uva da tavola proprio al fine di esaltare gli effetti del terroir sulle produzioni. A guardare in questa direzione è stato lo studio agronomico Agriproject Group Srl di Rutigliano (BA), in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e con alcune aziende di mezzi tecnici. Due anni fa il gruppo ha avviato il progetto “Biodiversità Vignainfiore” finalizzato a individuare degli indicatori, in grado di esaltare e valorizzare il legame che intercorre tra l’uva e il territorio. A parlarne è Michele Fioretti, agronomo per Agriproject Group.

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Tecnica dell’inerbimento in vigneto al fine di preservare la sostanza organica, ridurre il rischio di erosione e le perdite di azoto per lisciviazione e volatilizzazione

Michele, quali sono gli obiettivi del progetto “Biodiversità Vignainfiore”?

Lo scopo è quello di individuare i fattori che incidono sulla qualità della produzione di uva da tavola e di descrivere il legame che unisce la coltura con la cultura di produzione del territorio. Perciò stiamo raccogliendo e incrociando alcuni dati. Essi serviranno a individuare gli indici (come misurare) e le tecniche (come intervenire) in grado di caratterizzare il terroir di alcuni areali produttivi pugliesi. Lo step successivo sarà – ci auspichiamo – quello di adoperare le tecniche migliori nel rapporto produzione/ambiente e quindi promuovere poi il territorio. Per giungere a ciò, però, occorre che gli operatori del comparto si convincano che non basta solo saper produrre, ma che bisogna produrre bene. Si potrebbe pensare anche alla caratterizzazione dell’I.G.P. “Uva di Puglia” che esiste, ma è una realtà poco sfruttata e poco legata alle caratteristiche specifiche del territorio pugliese.

Quali indicatori avete individuato finora?

Partiamo innanzitutto dalla volontà di massimizzare e valorizzare le risorse disponibili in termini di recupero dell’agricoltura imitativa dei sistemi naturali. Per questo, si stanno studiando le migliori tecniche e tecnologie, si selezionano i sistemi di produzione più efficaci, ci si affida al miglioramento genetico e si valuta la complessità della biodiversità. Tecnicamente, si cercherà di testare un “agroecosistema uva da tavola” in grado di: conservare il patrimonio ambientale, stabilizzare la produttività e ottenere con adeguata remunerazione prodotti sani e di buona qualità.

Stiamo misurando l’indicatore di fertilità del suolo rilevando la stabilità della struttura, la capacità di scambio cationico, la percentuale di sostanza organica, il contenuto di azoto totale e l’attività biologica del microbioma. Il soil coverage, invece, descrive il numero di giorni all’anno in cui il terreno è coperto da vegetazione o da residui colturali. Maggiore è il numero di giorni in cui il terreno è coperto da materiale organico, maggiore sarà la qualità del suolo.

Grazie al carbon sequestration, poi, stimiamo la quantità di carbonio sequestrato dai tessuti vegetali (parti aeree e sotterranee) durante la stagione colturale. Stiamo rilevando anche indicatori che considerano le fasi di maggiore suscettibilità delle piante rispetto alla risorsa acqua. Il water footprint misura l’impronta idrica del sistema colturale e quindi il consumo idrico del processo produttivo. Viene espresso in termini di volume di acqua utilizzata, evapotraspirata ed inquinata durante il processo produttivo.

Per quanto riguarda l’indicatore aria misuriamo l’indice PEF (Product Environmental Footprint), che si basa su un approccio di LCA (Life Cycle Assessment). Inoltre, la carbon footprint quantifica le emissioni di gas ad effetto serra prodotti direttamente o indirettamente dalle attività aziendali. Misuriamo il livello di biodiversità aziendale mediante una valutazione dell’uso del suolo e valutiamo la biodiversità mediante l’indice di abbondanza, variabilità e complessità della biodiversità floristica, rileviamo la diffusione dell’entomofauna e l’influenza sui pronubi.

Particolare attenzione viene posta anche alle tecniche colturali.

Quest’anno, infatti, stiamo monitorando le riduzioni del numero dei trattamenti garantendo sempre la massima efficienza ed efficacia, così come stiamo monitorando l’azione degli agenti di biocontrollo e le variazioni positive e negative nelle popolazioni di pronubi.

Valutazione delle variazioni positive e negative nelle popolazioni di pronubi

Altra tecnica agronomica in valutazione è l’inerbimento o l’allettamento, che consiste nel mantenere il terreno coperto con prati o residui colturali per preservare la sostanza organica, ridurre il rischio di erosione e le perdite di azoto per lisciviazione e volatilizzazione. Inoltre, altra tecnica agronomica consiste nell’aumentare la complessità colturale, attraverso la realizzazione di siepi, volte a incrementare la biodiversità, fungere da barriera frangivento, condizionare positivamente i movimenti dell’acqua nel terreno, ospitare organismi predatori e parassiti dei nemici delle piante coltivate contribuendo alla creazione di un ambiente in equilibrio biologico, migliorare il profilo paesaggistico del territorio, offrire nettare e polline alle api. Infine, altro aspetto importante riguarda la tecnologia. Per ciascun areale, grazie all’installazione di sensori prossimali e ai DSS, verifichiamo e monitoriamo le condizioni peculiari del terroir al fine di individuare quali consentono alle nuove varietà di uva da tavola di esprimersi al meglio.

Quali sono le varietà oggetto dello studio?

Le varietà interessate sono ovviamente quelle maggiormente richieste dai consumatori, il cui palato viene “allenato” dalla GDO verso precisi gusti e caratteristiche organolettiche. Mi riferisco ovviamente alle varietà di uva senza semi (come Autumnrisp®, Luisa, Apulia Rose e Sugar Crisp™) alle quali ormai il consumatore si è “affezionato” a prescindere dal nome della cultivar. In ragione di ciò, quindi, sono continui gli studi e le analisi, anche da parte dei breeder. L’obiettivo è comprendere i terroir più indicati per ciascuna delle nuove varietà selezionate e coltivate in Paesi diversi dal nostro.

In quali zone si sta svolgendo il progetto?

Il progetto si avvale anche della collaborazione dell’OP AGRITALIA con sedi in tre diversi areali pugliesi vocati alla viticoltura da tavola: uno tra Barletta (BT) e Trinitapoli (BT), uno tra Acquaviva delle Fonti (BA) e Adelfia (BA) e uno nella zona di Ginosa (TA). Per ciascuno di questi tre areali le osservazioni interessano le stesse varietà. A fare la differenza, quindi, sarà il terroir, inteso non solo come insieme di variabili pedo-climatiche, ma anche come diversa disponibilità di manodopera, mezzi tecnici e pratiche agronomiche.

Quali risultati avete ottenuto finora?

Tra gli obiettivi, oltre a quello di individuare gli indicatori di sostenibilità da monitorare – influenzati direttamente dalle tecniche agronomiche e dalla tecnologia – vi è anche la riduzione dell’impiego di prodotti fitosanitari e concimi di sintesi. A riguardo possiamo dirci più che soddisfatti. Grazie all’impiego dei DSS, infatti, siamo riusciti non solo a ridurre l’impiego dei mezzi tecnici del 30% circa, ma possiamo anche digitalizzare i dati utili per l’analisi, il confronto e la caratterizzazione del territorio. Agriproject Group, coinvolgendo l’organizzazione di produttori OP AGRITALIA, alcuni fornitori di mezzi tecnici, l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e l’Università degli Studi di Foggia, intende realizzare un’unità di gestione dell’uva da tavola in cui le componenti siano così integrate e bilanciate da far assolvere al sistema la funzione di agroecosistema sostenibile, in un terroir riconoscibile e riproducibile in altre aziende. Anche il ricambio varietale, che ha investito il territorio, ha creato delle difficoltà nel processo produttivo e nella riconoscibilità del prodotto.

Ci auguriamo, quindi, che il nostro lavoro contribuisca a far sì che le nuove varietà raggiungano gli stessi standard di eccellenza a cui eravamo abituati con le cultivar autoctone, e che esse riescano a trasmettere al consumatore i valori e le caratteristiche del territorio in cui vengono prodotte.

 

A cura di:
Introduzione a cura di Fabio Burroni e Marco Pierucci – Studio Associato Agronominvigna
Silvia Seripierri

 
 

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