Francesco Rubino (Univeg Trade Italia): “C’è bisogno di una forte azione strategica per valorizzare le nostre uve”

da Redazione uvadatavola.com

Il settore della viticoltura da tavola sta vivendo attualmente un momento difficile, in particolare per l’andamento dei mercati, per i quali solamente in questi ultimi giorni si intravedono segnali di una debole ripresa.

Tuttavia i produttori di uva, nonostante le molteplici difficoltà a vendere il proprio prodotto, devono far fronte a molti altri problemi, tra cui le rigide regole imposte dalla GDO sul numero dei residui, gli elevati costi di produzione e la scelta della giusta varietà da impiantare.

Per saperne di più su tali problematiche, in particolare dal punto di vista commerciale, abbiamo intervistato Francesco Rubino di Univeg Trade Italia srl.

Cos’è Univeg?

Univeg è una società commerciale internazionale nata in Belgio nel secolo scorso e che si occupa della commercializzazione di prodotti ortofrutticoli freschi. Nel 2007 Univeg e Bocchi Trade Italia Srl si sono fuse, per dare vita a Univeg Trade Italia.

Chi sono i competitors di Univeg Trade Italia?

I nostri competitors possono essere i grandi distributori di ortofrutta come Chiquita, Del Monte, Dole, che con la Univeg sono le 4 sorelle più grandi del pianeta. A livello nazionale, invece, ci sono Rewe ed Eurogroup. Noi non ci occupiamo solo di commercializzare frutta, seguiamo i nostri fornitori per tutto l’anno dall’impinto alla raccolta. La parte commerciale, per noi è solo la seconda fase. Il nostro obiettivo è portare sulle tavole prodotti buoni con un basso impatto ambientale rispettando così sia il consumatore che il produttore. Noi infatti abbiamo la certificazione etica “SA 8000” (standard internazionale di certificazione redatto volto a certificare alcuni aspetti della gestione aziendale attinenti alla responsabilità sociale d’impresa tra cui il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori e le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro, ndr).

Qual è il suo ruolo nell’azienda?

Sono un tecnico della qualità e mi occupo delle culture dell’Italia meridionale, in particolare dell’uva da tavola. Cerco di seguire le aziende per ottenere qualità e sicurezza alimentare. I prodotti devono rispettare degli standard “estetici” perché il consumatore mangia prima con gli occhi, ma non tralasciamo mai la qualità. Mi occupo personalmente delle analisi, verifico che i principi attivi utilizzati possano degradarsi e non siano nocivi per il consumatore. Prima del taglio c’è anche il controllo in campo, pretendiamo che non sia accaduto nulla all’agricoltore, per noi le buone pratiche agricole sono una discriminante sostanziale.

Di quali prodotti ortofrutticoli vi occupate?

Oltre all’uva da tavola ci occupiamo anche di kiwi, pere, ciliege, pesche, albicocche, ma anche di ortive come cavoli broccoli, scarole, pomodoro, carote, cipollotti, cavolfiori, prezzemolo, ecc…. Non commercializziamo molto gli agrumi – di cui si occupa la nostra consociata spagnola – nè di melanzane e peperoni, anche se a livello ristretto lo facciamo in Europa dell’Est.

Quali sono le prospettive dei mercati dell’uva da tavola?

In Italia c’è un’assenza totale degli organi statali, invece in Spagna ed in Egitto lo Stato è molto presente ed orienta le grandi cooperative di produzione. Qui in Italia è tutto affidato alla libera imprenditoria locale senza nessuna indicazione. Ultimamente ho visto un’invasione di varietà apirene perché il mercato richiede uve senza semi a tutti i livelli. D’altro canto gli studi di viticoltura presenti sul territorio non hanno creato una varietà locale da coltivare, che ben si adatti alle nostre condizioni pedoclimatiche. Per questo molti agricoltori sono stati obbligati a pagare royalties ad aziende statunitensi e si ritrovano a coltivare delle varietà che non rispondono alle esigenze del nostro territorio. Capita anche che i produttori chiedano a noi commercianti “cosa dobbiamo coltivare?”, ma non siamo noi che possiamo rispondere. Perché varietà molto gradite sui mercati internazionali potrebbero essere poco produttive in Italia. Inoltre, subiamo molto la concorrenza greca che, già prima della crisi, aveva impiantato varietà gradite al mercato che da noi non crescerebbero tanto bene. Per quanto riguarda le vecchie varietà con il seme, tipo Red Globe e Italia, c’è bisogno di una forte azione strategica per valorizzarle. Attualmente c’è un po’ di caos nel settore. Noi per primi cerchiamo di mettere a punto azioni di promozione per invogliare i consumatori, facendo leva anche sul prezzo.

Quali sono i problemi derivanti da disinformazione e individualismo che caratterizzano il settore?

Il problema è uno spreco di capitali. Non avendo indicazioni sulle varietà da coltivare o indicazioni su come le piante reagiscono al nostro clima, l’agricoltore è disorientato. A volte ci sono coltivatori che in maniera illegale si procurano materiale di propagazione, ma questo vuol dire che non potranno vendere quell’uva. Noi per primi non possiamo commercializzare uva che non sia formalmente in regola, e sto parlando non solo di sicurezza ma anche di royalties e diritti. Non siamo stati capaci di proteggere la nostra varietà Italia, che è ancora molto apprezzata e che a mio avviso non scomparirà come, secondo me, accadrà per la Vittoria.

Cosa ne pensa del paradosso che spesso avviene in viticoltura da tavola? Per avere meno residui e per diminuire il numero dei principi attivi sulla merce, si è tentati ad utilizzare un solo prodotto andando così ad alimentare le resistenze di insetti e patogeni…

Per una questione commerciale, tutte le GDO hanno limitato il numero e la quantità di sostanze attive. I nostri agricoltori sono abituati ad usare tanti principi attivi sia come numero che come quantità. Facendo delle prove in campo, negli anni siamo effettivamente riusciti a ridurre il numero delle molecole sulla merce. Se si usa sempre lo stesso antiodico rimarrà solo una molecola come residuo, ma per quantità sarà comunque oltre i limiti di legge. Però se si lavora utilizzando la lotta integrata (integrando la lotta chimica con mezzi agronomici, biologici, ecc…), probabilmente si avranno più principi attivi, alcuni sotto la soglia di rilevabilità, ovvero 0.01 parti per milione (ppm). Tutto quello che è al di sotto di 0.01 ppm è chiamato traccia, ovvero una quantità talmente bassa che non può arrecare danno al consumatore. Anche in questo caso la GDO, per tutelarsi, ha abbassato i limiti rispetto alle leggi vigenti. Molte GDO dicono che il numero massimo di principi attivi deve essere 4 o 5, ma spesso due o tre molecole sono tracce. Per questo, ripeto, è importante l’approccio integrato che, se ben eseguito, ci aiuta a ridurre il numero dei trattamenti e ad ottenere prodotti buoni sia per i consumatori che per i produttori.

Autore: Teresa Manuzzi

Copyright: uvadatavola.com

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