Il microinnesto erbaceo è una tecnica che – pur basandosi sullo stesso principio dell’innesto tradizionale – prevede l’utilizzo di materiale derivante da micropropagazione, mediante la coltura in vitro di piccoli germogli all’interno di appositi laboratori.
Per comprendere origini e vantaggi di questa pratica agronomica è bene però fare un passo indietro e partire dall’innesto.
Le prime evidenze dell’innesto risalgono all’antica Cina, circa 2.000-3.000 anni fa, ma ben presto questa tecnica trovò diffusione presso i contadini greci e romani, giungendo fino ai giorni nostri. A favorirne l’impiego i molteplici vantaggi legati all’applicazione di questa tecnica: dall’aumento della produttività e della resistenza alle malattie all’adattamento ai cambiamenti ambientali, fino al controllo della vigoria e della precocità di sviluppo delle cultivar. Non solo: grazie alla scelta di portinnesti tolleranti a particolari condizioni del terreno – tra cui la presenza di specifici patogeni tellurici – nel tempo è stato possibile coltivare varietà di pregio, spesso più delicate ed esigenti rispetto a quelle tradizionali.
In altri casi l’innesto ha rappresentato un essenziale metodo di lotta nei confronti di parassiti d’importazione. Si pensi alla fillossera, parassita che attacca le radici della vite e porta in poco tempo alla morte della pianta. Alla fine del 1800, la fillossera – trasportata tramite barbatelle di vite americana – colpì diverse cultivar di vite da tavola, tanto da minacciare la sopravvivenza di circa l’80% delle viti d’Europa. Fu solo attraverso la pratica dell’innesto che gli agricoltori dell’epoca, riuscendo a sfruttare la resistenza dell’apparato radicale dimostrata da alcune varietà di vite americana, eliminarono la minaccia rappresentata dal parassita. L’episodio ha rappresentato un punto di svolta per la viticoltura: da quel momento in poi, infatti, le barbatelle impiantate hanno sempre avuto un portinnesto di vite americana su cui è innestata la varietà europea.
Nel tempo, l’importanza progressivamente attribuita all’innesto ha inoltre favorito un crescente sviluppo della sperimentazione a esso correlata.
Sono state quindi consolidate numerose tecniche di innesto, partendo dalle piante più facili da gestire e caratterizzate da cicli di vita più lunghi – quelle ad habitus legnoso – fino ad alcune specie orticole ad habitus erbaceo, tra cui: pomodoro, melanzana, peperone, anguria, melone e cetriolo. Proprio a partire da quest’ultimo si è quindi sviluppato il cosiddetto innesto erbaceo.
Tuttavia, negli ultimi decenni, i produttori hanno dovuto affrontare sfide crescenti legate all’uso sostenibile delle risorse, al cambiamento climatico e alla necessità di produrre alimenti in modo più efficiente ed ecologicamente responsabile. In questo contesto, è emerso un innovativo approccio all’innesto noto come microinnesto erbaceo. Questa tecnica di recente introduzione consente di innestare piccole parti di pianta, anche in forma erbacea, su specie ad habitus legnoso. In altri termini, sia la marza – apici vegetativi o gemme – che il portainnesto vengono prodotti in laboratorio – in ambiente sterile – e innestati in una fase molto precoce quando hanno un diametro di 3-5 millimetri.
Quali sono quindi i vantaggi del microinnesto erbaceo rispetto a un innesto tradizionale?
La sicurezza fitosanitaria è una garanzia sempre più ricercata e richiesta nel mercato delle giovani piante ottenute in vivaio. Con l’innesto tradizionale si produce in vitro solo il portinnesto, mentre la marza proviene da piante madri direttamente coltivate all’aperto, il che assicura con buona probabilità di ottenere materiale esente da fitopatie. I tessuti che vengono prelevati dalle piante madri sono infatti molto giovani e difficilmente presentano fitopatie, si parla di giovani germogli che, seppur sviluppatisi in pieno campo, hanno bassissima probabilità di risultare infetti. Nel microinnesto erbaceo, dunque, l’elevata probabilità di prelevare materiale sano dalle piante madri già riscontrabile con l’innesto tradizionale si trasforma in una certezza, derivando le marze da materiale micropropagato in ambiente protetto.
Di conseguenza, questa tecnica garantisce al vivaista la possibilità di vendere del materiale certificato, completamente esente da fitopatie.
Accanto a questo, l’ottenimento di piante ottenute tramite micropropagazione erbacea, del tutto sterili, permette di beneficiare di caratteristiche superiori per quanto riguarda la rispondenza genetica e le relative garanzie fitosanitarie.
Ci sono poi casi in cui il microinnesto erbaceo rende possibili attecchimenti tra bionti, che con l’innesto tradizionale non si potrebbero realizzare. Un esempio è l’innesto tradizionale tra due varietà di kiwi: Actinidia chinensis usata come marza e Actinidia arguta usata come portainnesto. In questo caso, a causa dei diametri differenti che caratterizzano i fusti delle due diverse cultivar, la buona riuscita di attecchimento risulta difficile. Diversamente, con la tecnica del microinnesto erbaceo, essendo i tessuti dei fusti giovani e teneri, si dispone di diametri più simili e quindi di una maggiore affinità d’innesto tra i due bionti.
In ultimo, il microinnesto erbaceo richiede meno tempo e risorse rispetto all’innesto tradizionale, determinando così un risparmio importante per i produttori.
Appare dunque evidente come questa tecnica innovativa contribuisca a rendere l’agricoltura più efficiente e sostenibile sia da un punto di vista ambientale, che economico. Con l’innovazione del microinnesto erbaceo, l’agricoltura moderna può infatti vantare un alleato in più contro le sfide attuali e future che interessano il comparto, garantendo in ultima analisi anche una produzione alimentare sostenibile e di alta qualità.
Donato Liberto
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