Riflesso del suolo, del clima, ma anche della gestione del vigneto, la flora spontanea dei vigneti è un ottimo indicatore per i viticoltori. Conoscere le specie che ne fanno parte, note anche come piante bioindicatrici, permette infatti di verificare che le strategie di controllo delle infestanti messe in atto o che le pratiche di lavorazione del terreno siano adeguate, agevolando così il lavoro in campo.
L’ambiente e lo spazio ecologico
Il termine ambiente fu usato per la prima volta agli inizi del 1800 dal poeta danese Jens Baggesen, in lingua tedesca, con la parola Umwelt, dai termini “Um” che significa attorno e “Welt” mondo. Tradotto letteralmente quindi l’ambiente è “il mondo che sta attorno”. Visione che cambia con l’introduzione del concetto di ecosistema, dove biotico e abiotico entrano in interazione a formare un sistema più o meno complesso. Ogni variabile fisica, chimica o biologica in grado di influire sull’ecosistema, in toto o sulla vita di un singolo organismo che ne fa parte, assume il ruolo di fattore ecologico. Genericamente si definiscono abiotici fattori come luce, temperatura, umidità, chimismo del suolo e delle acque, e biotici quelli che includono interazioni intra- e interspecifiche tra viventi (S. Pignatti, 2019).
Fin dall’antichità venne osservata l’influenza che l’ambiente esterno esercita sugli animali e sulle piante. Fu tuttavia soltanto verso la fine del XVII secolo che lo studio di tale influenza ebbe basi veramente razionali. La dimostrazione degli stretti legami intercorrenti fra le piante e l’ambiente si è avuta con i tentativi di naturalizzazione, i quali richiedono che la pianta trovi nella nuova dimora il mezzo conforme o almeno non molto diverso da quello del luogo d’origine.
Studiare la diversa ripartizione sulla superficie terrestre delle piante spontanee e coltivate è estremamente utile all’analisi geografica. La pianta riflette così intimamente l’ambiente e tanto vi si immedesima che può considerarsi come un apparecchio registratore capace di esprimere nel modo più esatto gli effetti cumulativi dei diversi fattori ambientali (P. Principi, 1955).
Questi fattori si possono suddividere in quattro grandi categorie:
- clima (luce, calore, venti, precipitazioni, ecc.);
- terreno (struttura, composizione chimica, ecc.);
- morfologia (altitudine, pendenza, esposizione, ecc.);
- vegetazione (raggruppamenti delle piante in associazioni, lotta fra le diverse specie, simbiosi, parassitismo, ecc.).
Le ricerche ecologiche implicano quindi la conoscenza del clima, della morfologia, del terreno e della stessa vegetazione. Tutti questi elementi, costituenti il mezzo biologico o ambiente, risultano così strettamente collegati e interdipendenti che è quasi impossibile scindere gli effetti dell’uno da quelli degli altri (P. Principi, 1955).
Le relazioni pianta-ambiente
La crescita delle piante è regolata in maniera ben precisa: esse sono intimamente legate all’ambiente in cui si trovano e sono condizionate da una serie di fattori ecologici e storici che giustificano o meno la loro presenza in un determinato luogo. Ogni specie vegetale ha nei confronti di ciascun fattore ecologico un range di tolleranza entro il quale può svolgere le proprie funzioni vitali. L’ampiezza di tale range varia da specie a specie: quelle a ecologia ampia prendono il nome di euriecie, mentre quelle più esigenti, con tolleranza ecologica ristretta, sono dette stenoecie e sono quelle che danno il contributo più utile in termini di bioindicazione.
Da un punto di vista autoecologico, i fattori ecologici possono agire sulle dimensioni del singolo individuo e sulla sua forma e influenzare le manifestazioni biologiche cicliche e la stessa durata della vita.
Inoltre, possono controllare la consistenza delle popolazioni, agendo sul tasso di riproduzione, sulla competitività, sulla capacità di germinazione e sulla velocità di crescita. Di contro gli organismi vegetali possono influire sull’ambiente modificando l’entità e la qualità di alcuni fattori, come ad esempio limitando la quantità di radiazione solare nelle vegetazioni stratificate o incrementando la quantità di sostanza organica con accumulo di necromassa o ancora acidificando il suolo come accade per alcuni boschi di conifere (S. Pignatti, 2001).
Piante bioindicatrici
Nel secondo libro del De Rustica di Columella, il sommo “agronomo” così si esprimeva: “sono diversi i segni che permettono di riconoscere un terreno soffice e adatto al grano, come la presenza di giunco, canna, trifoglio, rovi, prugnoli, e diverse altre piante che, ben note ai ricercatori, crescono solo nelle vene di una terra morbida”.
Senofonte, 2400 anni fa, dopo aver affermato che l’agricoltura è, di tutte le arti, la più facile da imparare, ne espone le basi a cominciare dalla conoscenza del suolo: “Si può anche su un pezzo di terra che appartiene a un all’altro riconoscere ciò che può o non può produrre, solo vedendo i raccolti e gli alberi(…). Ciò che la terra ama far crescere e nutrire (….)”.
Nel ‘500, l’italiano Gallo elenca le “erbe che fanno conoscere la bontà di un terroir”: “se crescono i denti di cane, il trifoglio e le malve… non c’è una di quelle erbe il che, essendo nato in qualche luogo, non dà il significato di fertilità: ma sopra tutto il trifoglio porta il vantaggio”.
Nonostante queste testimonianze storiche, i primi lavori sulle piante bioindicatrici risalgono a circa 100 anni fa in Francia, dove l’argomento era addirittura disciplina scolastica.
In natura, le piante consumate o danneggiate hanno da sempre segnalato ai cacciatori segni della presenza di selvaggina invisibile; quelle che per la loro impollinazione (orchidee) o la loro disseminazione (vischio) dipendono strettamente da una singola specie animale, ne indicano anche la presenza.
In generale, tutte le piante spontanee possono dare interessanti indicazioni sugli aspetti pedoclimatici e agrocolturali riferiti a una determinata coltura e per uno specifico territorio. Lo studio scientifico, mediante cioè l’utilizzo della fitosociologia e della fitoecologia, delle piante bioindicatrici, abbinato anche ad altre tecniche di indagine (analisi fisico chimiche di laboratorio, “prova della vanga”, ecc.) può diventare un utile mezzo diagnostico per l’agricoltore e il tecnico, che avranno a disposizione un “metodo biologico” atto anche a verificare gli effetti positivi o negativi di determinate pratiche agrarie. Infatti, la presenza di determinate specie vegetali, legate a determinati biotopi e a specifiche esigenze di clima e terreno, può evidenziare anche alcuni errori di coltivazione.
Appare evidente che, in tutti questi casi, le semplici analisi fisico-chimiche di laboratorio possono non dare evidenza di questi “errori”. Una definizione “moderna” di piante bioindicatrici può essere la seguente: “Specie vegetali facilmente riconoscibili, la cui presenza (o, al contrario, l’assenza) in luogo fornisce indicazioni su una o più caratteristiche, fisico-chimiche o biologiche, naturali o dovute all’azione dell’uomo. L’espressione deve essere sempre al plurale e si dovrebbe parlare piuttosto di vegetazione indicatrice (o associazione vegetale) perché una specie, o una pianta, non può essere, da sola, un indicatore”.
Affinché una pianta possa essere considerata un bioindicatore in un ambiente deve essere in posizione dominante sulle altre specie presenti, ovvero almeno da 5 a 10 soggetti per m², o almeno il 70% dello spazio occupato dalla pianta stessa.
La metodologia di indagine oggi più seguita nello studio delle piante bioindicatrici è quella che utilizza gli studi del botanico Gérard Ducerf sulle relazioni germinazione/dormienza dei semi delle specie spontanee.
Dal punto di vista operativo è necessario dapprima avere a disposizione un’ottima guida botanica, per operare poi in campo secondo una metodologia standardizzata. In genere le epoche di rilievo sono la primavera, l’estate e l’autunno.
Si definisce una zona omogenea della parcella, si identificano le specie presenti e per ognuna di esse si rileva il tasso di presenza; successivamente si somma il tasso di copertura e si analizza secondo il fascicolo riportato da Gérard Ducerf.
Le indicazioni che si possono ricavare sono diverse:
- struttura del suolo (compatta, arieggiata, ecc.);
- tessitura, pH, pratiche umane presenti o passate ( terreno arato, calpestato, ecc.);
- attività dei microrganismi (batteri, funghi, ecc.).
Come esempio si riporta la lettura di un terreno a dominante presenza di Stellaria media, una specie considerata “rappresentante” di un terreno di “ottime qualità”: “Terreno biologicamente attivo, aerato, non compatto, buona mineralizzazione del materiale organico. Pianta che indica un terreno ben equilibrato e fertile”.
Mostrami le tue erbacce… Ti dirò quali sono le tue pratiche viticole e che tipo di terreno hai.
La flora spontanea dei vigneti merita di essere conosciuta. È un riflesso del suolo, del clima, ma anche della gestione del vigneto: la lavorazione del terreno, il diserbo chimico, la data e la frequenza dello sfalcio e il manto erboso influenzano infatti la flora spontanea.
Uno studio effettuato in Francia ha rilevato che delle 5.000 specie di piante presenti, solo circa 400 crescono in coltivazione. In viticoltura si possono trovare da 75 a 80 specie diverse sul territorio nazionale, e tra le 40 e le 50 sullo stesso vigneto.
È difficile conoscerle tutte, ma è utile saper identificare le specie maggioritarie su un appezzamento, quelle problematiche o il cui danno è importante: specie recalcitranti al diserbo, competitive con la vite in estate, ecc. Può essere interessante anche per i viticoltori che si dedicano all’enoturismo e che fanno tour dei loro vigneti per poter individuare alcune piante “graziose e curiose” (muscari, tulipani, trifogli, ecc.) da mettere in evidenza ai visitatori.
Conoscere le specie spontanee permette di verificare che la strategia di controllo delle infestanti sia adeguata, ossia che lo spettro d’azione e la dose utilizzata corrispondano nel caso del controllo chimico, o che le pratiche di lavorazione del terreno siano adatte. Per chi opta per l’inerbimento, questo permette di sapere se la flora spontanea ben si adatta alla pratica dell’inerbimento naturale o, al contrario, se sarà necessario ricorrere a un inerbimento “artificiale”.
Alcuni esempi di piante bioindicatrici nei vigneti e loro significato agronomico
La flora spontanea dei vigneti differisce per fascia altimetrica, latitudine, condizioni pedoclimatiche, sistema di allevamento e gestione delle malerbe. Negli spazi interfilari sottoposti a periodiche trinciature predominano le specie tipiche dei regimi sodivi e dei prati, tra cui le Poacee microterme (Lolium, Poa, Bromus, Dactylis, Alopecurus, Avena, ecc.), mentre le specie macroterme annuali Echinochloa, Digitaria e Setaria si ritrovano più di frequente negli impianti irrigui o sottoposti a lavorazione, in particolare sotto le file. Le più competitive perennanti Agropyron, Cynodon e Sorghum si ritrovano di frequente in tutti gli impianti.
Durante il periodo autunno-primaverile sono frequenti le specie a foglia larga Veronica, Geranium, Stellaria, Lamium, Calepina, Plantago, Picris, Taraxacum, Sonchus, Senecio, Crepis, ecc. Tra le specie più diffuse che crescono in altezza, vi sono le annuali come Amaranthus, Solanum, Chenopodium, Polygonum, e le perennanti Cirsium arvense, Rumex spp., Artemisia vulgaris.
La flora di sostituzione è costituita in genere dalle specie che si sono selezionate a seguito di un eccessivo impiego di glifosate, tra cui Equisetum, Epilobium, Erigeron, Geranium, Malva, Convolvulus, Mentha, Brionia, Phytolacca, Parietaria, Inula viscosa, Torilis arvensis, Parietaria spp.
Senecio vulgaris: questa pianta è presente nei terreni alcalini, poveri in sostanza organica e/o dove l’azoto è in eccesso. Questi terreni sono destrutturati, con iniziali segni di erosione. In sua presenza, è fondamentale apportare humus (C/N 20-30) al fine di ricostituire la fertilità.
Erigeron canadensis: si trova nei terreni limosi e poveri di sostanza organica. La sua presenza eccessiva segnala compattamento, lisciviazione ed erosione del suolo per cui occorre ridurre le lavorazioni e apportare sostanza organica, mantenendo una buona copertura permanente.
Diplotaxis erucoides: presente in suoli ricchi in basi, compatti e con pH elevati, segnala una mancanza di attività microbica aerobia. Il fosforo è ugualmente bloccato. In questo caso, è bene evitare di lavorare troppo finemente il suolo e aggiungere sostanza organica.
Cirsium arvense: è una specie mesofila e pioniera che si ritrova in tutti i tipi di terreno, nonostante la predilezione per quelli fertili, freschi, profondi e limosi; è indicatrice di limo e anche di azoto, tuttavia risulta frugale e può adattarsi anche a tutte le condizioni. In sua presenza, si può riscontrare un possibile blocco del fosforo.
Alopecurus myosuroides: in genere assente nei suoli sabbiosi e acidi, preferisce terreni di medio impasto, argillosi e anche calcarei, costipati, freschi, ma non troppo umidi. Risponde prontamente alle concimazioni potassiche e azotate, mentre il suo accrescimento è indipendente dal livello di fosforo. L’eccessiva presenza, così come per Lolium spp., denota un “abuso” di molecole erbicide nei vigneti, in particolare glifosate.
Equisetum arvense: predilige terreni argillosi, argillosi-sabbiosi, sabbiosi, umidi, talvolta compatti e poveri di calcio. Indica terreni umidi con falda freatica elevata, scarso drenaggio e pH tendenzialmente acido.
Appare dunque evidente l’importanza di un’attenta osservazione in campo: tutte le piante spontanee possono dare interessanti indicazioni, ma saperne riconoscere i messaggi nascosti può aiutare produttori e tecnici che possono così migliorare la gestione in vigneto e intervenire tempestivamente lì dove necessario.
A cura di: Silverio Pachioli
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