Mentre durante il primo lockdown i consumatori avevano incrementato il consumo di prodotti provenienti dall’Italia – supportando così i produttori locali – ora, invece, la spesa pare essere dettata esclusivamente dalla leva del prezzo.
Per avere un’idea più precisa della campagna per le uve tardive è necessario dare uno sguardo anche alla parte commerciale della campagna. Per questo abbiamo deciso di intervistare Francesca Lonigro, della direzione commerciale per Lonigro Group. L’azienda di esportazione, oltre all’uva da tavola, si occupa di commercializzare piselli e fichi. Con l’inizio della campagna delle uve precoci, però, l’azienda lavora esclusivamente con questo frutto ed esporta verso diversi Paesi dell’Europa, tra tutti spicca la Germania, che attrae il 90% dei volumi del gruppo.
Quali sono le richieste del mercato estero?
Il mercato tedesco è composto da una nicchia di consumatori che predilige le uve con semi, con il termine nicchia mi riferisco a quei consumatori intenditori, prevalentemente adulti dal palato “educato” a determinati gusti. Senza nulla togliere alle uve senza semi che, a mio avviso, purtroppo non riescono ancora oggi a raggiungere il gusto delle uve con semi. Il mercato tedesco è però composto da una buona percentuale di consumatori di uve senza semi. Queste varietà, di anno in anno, stanno prendendo sempre più piede. Esse infatti sono caratterizzate da una maggiore “facilità” di consumo e attraggono fasce di consumatori di età sempre sempre più bassa. Sui mercati dell’Est-Europa è ancora richiesta l’uva con seme, ma anche qui le seedless aumentano di importanza di anno in anno.
So bene che solo a dicembre la stagione italiana dell’uva da tavola può dirsi conclusa, ma – finora – come è stata la stagione 2020 per le uve tardive?
Se dovessi usare solo un aggettivo direi: contraddittoria. Contraddittoria perché solitamente durante la prime settimane di settembre è consueto che le vendite subiscano un leggero ribasso. Allo stesso tempo è anche consueto che da metà settembre in poi il mercato ritorni ad essere più vivace: quest’anno, però, non è andata così. Probabilmente perché Paesi come Olanda e Polonia hanno chiuso le frontiere e questo ha avuto conseguenze anche sulla vendita dell’ortofrutta.
Inoltre anche la Grande Distribuzione Organizzata ha lavorato diversamente dal solito. Un’altra anomalia è stata, infatti, rappresentata dal fatto che, mentre durante gli anni passati la GDO lavorava accaparrandosi grandi volumi di merce, che veniva stoccata e smistata pian piano, quest’anno abbiamo avuto l’impressione che gli ordini venissero realizzati quasi “alla giornata”. I quantitativi di uva richiesti nel corso di questa stagione bastavano a soddisfare i bisogni della GDO esclusivamente nel breve periodo.
Certo, il Covid-19 non ha giocato a nostro favore e questo clima di insicurezza ha scosso consumatori e di conseguenza anche la GDO. La quale, avendo a che fare con un prodotto deperibile come l’uva da tavola, cercava di non fare grossi accaparramenti. Le uve tardive sono state investite quasi del tutto dalla “seconda ondata”, perché – proprio a metà settembre – già si iniziava a percepire che il Covid si sarebbe ripresentato nelle nostre vite.
Tra le altre cose questa stagione abbiamo registrato anche volumi inferiori alle aspettative. Per alcune cultivar l’ammanco è davvero sostanzioso come per la cultivar Italia e alcune senza semi. Per non parlare della Crimson, che sia una varietà con basse performance produttive è noto, ma quest’anno non ha nemmeno raggiunto un grado accettabile di colorazione. Per sopperire a problemi di colorazione alcuni nostri competitors come Spagna e Cile, possono utilizzare tranquillamente l’etilene, ma le normative italiane lo impediscono. Allo stesso tempo però pare che questo divieto non valga per i prodotti importati nella nostra Penisola. Perché importiamo uva da proprio dai Paesi che non hanno gli stessi nostri divieti. Servirebbe un organismo europeo super partes che almeno imponesse le stesse regole per tutti i Paesi dell’Unione Europea.
E se parlassimo del prezzo medio spuntato dall’uva?
In linea generale per i prezzi io credo che non siano stati così malvagi: nel corso della stagione ho notato che alcuni clienti riuscivano a far venir voglia di lavorare, perché riuscivano a pagare bene il prodotto. Quindi permettevano a tutta la filiera di coprire i costi di produzione. Altri clienti, invece, proponevano prezzi incapaci anche solo di ricompensare gli sforzi in campo. Anche qui, insomma, ritorna l’aggettivo “contraddittoria” per questa campagna che ci ha mostrato due facce opposte allo stesso tempo.
Da qui a dicembre, immagina che i prezzi potranno migliorare?
Credo, vestendo ora i panni del consumatore, che oggi si cominci a “farsi i conti in tasca” e a fare economia sulla spesa quotidiana. Faccio un paragone con le arance, frutto del momento e quasi universalmente riconosciuto come integratore di vitamina C. Le arance, appunto, le troviamo a prezzi che sono sempre più competitivi: 2,50 euro/kg e talvolta anche meno. Oggi, vista la congiuntura economica, quanto è disposto a spendere il consumatore per un prodotto che sui banchi solitamente è venduto a prezzi più alti e non è nemmeno “famoso” per le le sue virtù salutari. Dopo l’esperienza dei “rimborsi” del primo lockdown, il consumatore medio, oggi, ci pensa due volte prima di fare un acquisto, perché sa di non avere le spalle coperte.
Secondo Lei l’uva viene venduta ad un prezzo troppo alto?
Anche, ma a mio avviso non viene nemmeno valorizzata a dovere. Tutti sanno che l’arancia contiene vitamina C. Il medico stesso consiglia di aumentare il consumo di arance in caso di raffreddamenti. L’uva da tavola è ricca di vitamina D, ma non è una cosa nota, così come non sono di dominio pubblico tutti i tanti benefici derivanti dal suo consumo. Penso che per incoraggiare gli acquisti di questo frutto sia necessario un’azione comune da parte del settore per promuovere un’idea diversa del frutto. Siamo troppo individualisti, però. Noi, nuove generazioni, dovremmo avere il coraggio di cambiare marcia, perché l’atteggiamento adottato dai nostri padri poteva andar bene fino a ieri, oggi però è il momento di fare qualcosa di diverso, di organizzarsi. Immagino sia necessaria la realizzazione di un pool di diversi esperti appartenenti a tutta la filiera che lavorino per realizzare analisi settimanali e che si occupino di ricerca scientifica e di pianificazione delle vendite.
A tal proposito, so che è impegnata nella CUT, la Commissione Italiana Uva da Tavola.
Sì, mi sono impegnata in prima persona perché credo nelle potenzialità di questo settore, inoltre io sono nata nell’uva da tavola, quindi per me questo non è solo un lavoro, ma anche una passione. Sono cosciente del fatto che c’è da rimboccarsi le maniche, penso sia fondamentale agire per far sì che tutta la filiera tragga vantaggi positivi. Il consumatore deve riconoscere il valore racchiuso di ogni singolo chicco di uva.
Quindi per far sì che tutto il comparto riconquisti vitalità, secondo lei, occorre lavorare per dare valore al frutto, comunicando al consumatore non solo la bontà, ma le qualità organolettiche e salutari dell’uva?
Occorre valorizzare l’uva da tavola certo, allo stesso tempo, però, mi faccio delle domande: perché fino a qualche anno fa i nostri padri riuscivano a guadagnare qualcosa in più rispetto ad oggi? Cosa è cambiato? La risposta, secondo me è che è cambiato il modo di vendere. Oggi è la Grande Distribuzione a decidere che merce devo caricare, in che periodo ed anche a che prezzo. Ancora una volta ritorna la debolezza del nostro tessuto produttivo estremamente frammentato e quindi incapace, tra le altre cose, di alzare la voce per poter avere una maggiore forza contrattuale con la GDO.
Autore: Teresa Manuzzi
©uvadatavola.com