Il trend che sta attraversando il comparto della viticoltura da tavola in Italia non è positivo. Tuttavia, le contromisure messe in atto dai vari operatori della filiera, per cercare di contrastare una tendenza che non sembra orientata a nostro favore, non sono molte.
Nei mesi scorsi abbiamo rivolto qualche domanda ad Alfio Messina (Agrimessina S.r.l.), Nicola Giuliano (Orchidea Frutta S.r.l.), Marino Santamaria ed Ottavio Leone (O.P. Terra di Bari) e Vito Lasorella (Lara Fruit) per provare a definire il trend di mercato che il prodotto uva da tavola sta attraversando.
Le risposte non sono state sempre rassicuranti, le cause che hanno generato i problemi che oggi vive il settore sono note a tutti. I due temi costantemente presenti in ogni intervista sono la difficoltà nella conversione del parco varietale, con il passaggio alle varietà apirene più appetite dal mercato, e la scarsa tendenza nell’individuazione di forme di aggregazione “serie” tra gli operatori commerciali. Non dare risposte a queste esigenze espresse dal contesto in cui la filiera opera, potrebbe rappresentare un grosso rischio per il futuro di tutto il settore.
A grande richiesta, a partire da oggi, riproporremmo settimanalmente ogni singola intervista già pubblicata sul n. 5/2014 della nostra rivista Uva da Tavola Magazine.
Di seguito la prima intervista ad Alfio Messina (Agrimessina S.r.l.).
Alfio Messina è titolare dell’omonima azienda di esportazione attiva nel Sud Est Barese da ormai molti decenni. L’azienda è nata negli anni 50 quando il padre di Alfio, che commercializzava uve da tavola siciliane della varietà Zibibbo di Pantelleria, si trasferì in Puglia per commercializzare l’uva Regina. Dopo aver vissuto tutta la fase dell’uva Regina e il successivo passaggio all’Italia, l’azienda iniziò, fin dagli anni ’80, a lavorare con le uve senza semi, esportandole soprattutto verso l’Inghilterra, mercato di riferimento.
La vostra azienda di esportazione commercializza varietà senza semi ormai da alcuni decenni.
Si, di uva senza semi si parlava già negli anni ’70, principalmente della Thompson proveniente dalla Grecia. Poi sono arrivati il Cile e la California. Così, fin dall’inizio, abbiamo commercializzato le prime uve apirene, prima la Centennial, poi la Superior e le altre senza semi.
Qual è in Europa il trend del consumo delle uve da tavola nell’ultimo quinquennio?
I dati che possiedo sulla commercializzazione delle uve italiane indicano una generalizzata flessione delle esportazioni. Ad esempio, il dato del 2013 rispetto all’anno prima indica un -2% verso l’Europa Continentale, -18% verso la Russia, -8% verso il Regno Unito. In generale la flessione nel 2013 è stata del 3%. Bisogna capire i motivi di tutto questo. La prima domanda che tutti gli operatori dovrebbero porsi è: perchè abbiamo avuto questo trend negativo? In merito ci sono due teorie.
Parliamo della prima delle due teorie
La prima teoria, propria dei “positivisti”, è relativa alla qualità dell’uva, inferiore a quella dell’anno precedente, che avrebbe causato una riduzione dei consumi. Secondo i sostenitori di questa teoria in un’annata in cui il prodotto tornerà ad essere di buona qualità il trend tornerà ad essere positivo. Io, invece, appartengo ai sostenitori della seconda teoria.
Cosa dice, invece, questa seconda teoria?
Dice che il trend negativo è collegato alla sovrapproduzione di uva in tutte le principali aree di produzione. Un fattore che ha determinato una maggiore e generalizzata concorrenza sui mercati, a causa della quale i Paesi più deboli come il nostro, dove per debolezza si intende una minore capacità di essere competitivi a livello dei prezzi, hanno perso mercato. Le produzioni di uva nel Mondo sono in aumento e questo non va bene. Eppure, se considero i dati della sola Inghilterra, ovvero il mio mercato di riferimento, il trend di consumo dell’uva da tavola è positivo. Quindi, si consuma più prodotto uva, ma se ne acquista meno proveniente dall’Italia.
Il problema, quindi, è italiano?
Il problema è che non siamo competitivi, né sui prezzi né sulle forniture. Oggi, quando si parla con la GDO inglese o tedesca, i numeri vanno chiusi ad inizio stagione. Ma chi può fare questo? La GDO ci chiede a marzo di poter conoscere il prezzo definitivo per tutta la stagione dell’uva da tavola.
L’Italia è nelle condizioni di poter dare risposta a questa esigenza?
Gli spagnoli lo fanno, in quanto possono dire ad inizio stagione di disporre di 100 camion di uva della stessa qualità disponibili nei prossimi 10 giorni. Nessuno dei commercianti presenti sul nostro territorio può farlo. Un discorso analogo si è verificato sugli agrumi.
Qual è il collegamento?
Perchè abbiamo perso il mercato estero delle clementine? Nessuno di noi in Italia è in grado di garantire, in un dato momento della campagna di commercializzazione, 10 camion al giorno di clementine dello stesso calibro. Lo stesso avviene per l’uva. Se la GDO ci chiede 10 camion al giorno di uva nei cestini, noi non siamo in grado di soddisfare tale richiesta. Il perchè è presto detto: noi operatori commerciali non possiamo interfacciarci in modo diretto con la GDO, dobbiamo arrivarci tramite un importatore che dovrà unire due camion dal commerciante X, tre da quello Y, altri due da quello Z e così via, per soddisfare le richieste.
Quindi,poiché non siamo in grado di aggregarci da soli, ci aggrega l’importatore?
Esatto, ma lo fa a pagamento (dal 6 al 12%). Questo costo in più oggi fa la differenza. A questo si aggiungono tutti gli altri costi.
Facciamo degli esempi su questi altri costi. Per la tratta Murcia (Spagna)-Londra (Inghilterra) il costo di trasporto con Tir è di 2700 euro. La tratta Rutigliano (Italia)-Londra (Inghilterra) costa invece 3700 euro. Circa un 30% in più esclusivamente legato al costo del carburante necessario per giungere al confine italiano. A questo bisogna aggiungere l’elevato costo dell’energia in Italia: per la sola campagna dell’uva, nel 2013, la mia azienda ha sostenuto un costo energetico pari a 250mila euro, 2/3 in più rispetto ad un competitore spagnolo. Per non parlare poi dei costi previdenziali in Italia rispetto a quelli spagnoli. In sintesi credo che, essendo quello in cui operiamo un mercato globalizzato, lo Stato dovrebbe permettermi di essere almeno competitivo con fornitori di altri paesi miei concorrenti, come Spagna e Grecia. Non parliamo, poi, di Marocco, Turchia e altri Paesi del Mediterraneo
Tutti questi costi in più si traducono in una perdita di competitività sui vari mercati di importazione?
Il -18% di uva che abbiamo esportato nel 2013 verso la Russia, è stato provocato dalle esportazioni di uva dalla Turchia (tale percentuale è aumentata nel 2014 a causa dell’embargo imposto da Putin, n.d.r.). La riduzione delle esportazioni di uva dall’Italia verso l’Inghilterra è stata causata dalla Spagna. Ripeto: l’uva consumata in Inghilterra è aumentata, noi invece abbiamo esportato meno verso questi mercati. Gli italiani non solo non sono riusciti a guadagnare la fetta di mercato in più che si è aperta in Inghilterra, ma hanno anche perso posizioni. La nostra categoria, quella dei commercianti, deve analizzare con attenzione questi dati.
Altro problema è il rapporto impari che gli operatori commerciali hanno instaurato con la GDO.
I commercianti subiscono il prezzo e ogni anno questo aspetto assume toni sempre più netti. Non siamo noi a stabilire quando sarà realizzata una promozione, ma la GDO. Loro sono pochi, grandi e uniti, non si siederanno mai al tavolo con i fornitori per definirne i prezzi. Senza considerare che, nonostante l’Italia sia un forte produttore di ortofrutta, non dispone di alcuna piattaforma all’estero, neanche le realtà più grosse come i Consorzi. Dobbiamo appoggiarci sulle piattaforme spagnole, tedesche o inglesi. Come si fa a commercializzare seriamente senza disporre del servizio fornito dalle piattaforme? Ci sono catene che sono disposte a pagare il servizio. Se io fossi in grado di consegnare tutti i giorni uva di qualità standard, alcune catene commerciali mi pagherebbero 2, anche 3 euro/kg. Ma a loro serve una continuità che noi non possiamo offrire perchè non disponiamo di questo prodotto di qualità standard ogni giorno. Non siamo strutturati per offrire questo servizio.
Cosa manca al settore per poter commercializzare in modo ottimale?
Innanzitutto mancano le quantità, poi serve specializzazione. Oggi, per come si è strutturato il mercato, l’operatore non può riuscire, in modo serio, a operare professionalmente su tutti i mercati, non è pensabile. Ognuno dovrebbe specializzarsi in un mercato, in quanto ogni paese ha una tipologia di prodotto diverso, con varietà diverse. In alcuni periodi dell’anno ci sono otto diverse varietà di uve senza semi, questo significa buste, cestini, cestini misti. Per ogni varietà si arriva fino ad otto tipologie di imballaggio e, se si opera su più Nazioni, qualcosa finisce sempre per andar male. Quindi, in sintesi, ogni commerciante avrebbe dovuto specializzarsi su uno, massimo due, mercati, per ridurre i costi e offrire un miglior servizio. E poi bisogna smettere di pensare che il concorrente del commerciante italiano sia l’altro commerciante italiano. Quest’ultimo va invece visto come un collaboratore. Il mio concorrente è spagnolo o greco, non italiano.
Ci potranno essere nel prossimo futuro delle sinergie tra operatori commerciali?
Dovranno esserci per forza, saremo costretti. Se rifornisco una catena di supermercati e devo garantire 40 camion con determinati standard, posso anche essere il più grosso operatore commerciale, ma non ce la potrò mai fare. Serve una sinergia. Oggi il raggruppamento di più operatori commerciali è svolto dall’importatore che citavo prima. Ma non abbiamo più la possibilità di sostenere i costi di quest’altro anello della catena. Prendiamo un altro tema: quello delle uve senza semi. Qui sul territorio si sta impostando tutto nel seguente modo: il commerciante è licenziatario di alcune determinate varietà, in virtù di questo crea un gruppo di produttori che andranno a costituire una massa critica di 200-250 ettari di una determinata varietà, prodotta con determinati standard. Noi stiamo puntando sulla SNFL, quindi Timpson, Allison, Timpco. Non è più possibile comprare sulla pianta, il commerciante che acquista non conosce quali trattamenti sono stati eseguiti, non può orientare più di tanto la maturazione. Ecco perchè ognuno deve specializzarsi: in questo modo se il commerciante costituisce un gruppo di produttori, può stabilire chi deve produrre per l’anticipo, chi per il ritardo, chi fare l’uva buona, chi fare l’uva bella. In questo modo l’agricoltore è tranquillo perchè sa che al momento del raccolto ci sarà qualcuno che andrà a tagliare il prodotto.
In sintesi servono strategie di aggregazione sia con altri operatori commerciali sia con i produttori.
Esatto, senza operazioni di questo tipo non so se sarà possibile continuare ad essere presenti sul mercato. I miei colleghi dicono che sono pessimista, ma dubito che riusciremo a mantenere il mercato anche in futuro. Noi abbiamo problemi infrastrutturali, primo fra tutti la frammentazione fortissima del territorio che determina un aumento dei costi. Io ho paura che si verifichi quello che è successo per le clementine. Nel passaggio dai mandarini con semi alle clementine senza semi, l’Italia ha perso mercato ed è finito tutto. Noi oggi stiamo vivendo il passaggio dall’uva con semi a quella senza semi. Io sono un operatore che esporta anche in Germania: nel 2012 abbiamo spedito, allo stesso cliente, il –20% di uva con semi e il +20% di uve apirene. Anche i clienti che storicamente consumavano uva con semi, stanno progressivamente passando alle senza semi. Ma noi siamo carenti di uve apirene. I grossi volumi di seedless sono presenti in Spagna e in Grecia, ma non in Italia. Noi riusciamo a spuntarla solo durante il periodo della varietà Italia, uva che per le condizioni pedoclimatiche non è possibile produrre bene altrove nel mondo. Ma, a parte il periodo settembre- novembre, il consumatore preferisce le uve senza semi. E quando ha provato le apirene è difficile riportarlo sulle uve tradizionali. L’uva Italia resterà in commercio sul mercato nazionale, molto legato al colore e al sapore, e su quelli di Svizzera e Francia. Ma abbiamo perso tutti i mercati nordici: Norvegia, Svezia, Finlandia, Olanda dove ormai non si manda più un kg di uva con semi. Ma la cosa forse ancora più drammatica è quello che è successo con le nettarine. L’Apo Conerpo, nel 2013 per la prima volta non è riuscita a commercializzare un solo kg di pesche nettarine sul mercato inglese, in quanto è stato assorbito completamente dagli spagnoli. L’Apo Conerpo, non è un gruppo piccolo: come fatturato e quantità è il primo in Europa, quindi superiore anche ai più grandi gruppi spagnoli. Questo dato fa riflettere su come il mercato può evolvere da un anno all’altro.
Per questo serve la specializzazione in un singolo mercato?
Esatto, il mercato in cui si è scelto di operare bisogna conoscerlo a fondo ed in maniera capillare, altrimenti prima o poi si è fuori. E se si perde, non si riconquista più. A marzo di quest’anno tutte le catene inglesi ci hanno chiesto il prezzo per tutta la campagna 2014. Cosa potevo rispondere in quel periodo? Su quali basi? Eppure ho fatto un prezzo. Nel bene o nel male, ho dovuto fare un prezzo per tutta la campagna. Un noto gruppo inglese chiedeva il prezzo dell’uva 2014 già il 10 Dicembre 2013 e gli spagnoli sono stati in grado di dare una risposta in quella data. Risultato: la catena inglese non prenderà più uva dall’Italia perchè ha deciso di approvvigionarsi dalla Spagna. Lo stesso sta succedendo con tutte le grosse catene di distribuzione. Ecco perchè le guerre tra me e l’altro commerciante sono del tutto inutili. Serve una forte collaborazione, siamo tutti sulla stessa barca. Se non si capisce in fretta questo concetto siamo tutti finiti. Tutti.
Ci sono spiragli di apertura da parte dei vari operatori commerciali all’aggregazione? Chi potrebbe fare il primo passo?
Negli ultimi due anni credo che più di un commerciante abbia capito che non si può andare avanti in questo modo. Non sono state annate facili. L’APEO, per esempio, potrebbe coordinare le varie organizzazioni di categoria, fin’ora del tutto disinteressate alle tematiche prettamente commerciali. Sembra quasi che i problemi degli operatori nella commercializzazione di uva da tavola non riguardino anche i produttori. Ma non è così.
Il medio e l’estremo oriente saranno in futuro un mercato verso cui orientare parte della produzione?
Si, ma serve la collaborazione di chi fornisce il trasporto, della politica che deve lavorare alla costituzione di accordi di libero scambio, dell’agronomo che deve fare in modo che l’uva possa sopportare il lungo viaggio. Servono una serie di persone che devono lavorare al raggiungimento di un obiettivo comune, che ha anche una valenza sociale. Con la viticoltura da tavola è possibile dare lavoro a migliaia di persone che altrimenti difficilmente lo troverebbero altrove. Lo Stato, purtroppo, non agevola in alcun modo le imprese che forniscono questa enorme quantità di lavoro al territorio. Ripeto, i nostri competitori sono le aziende di Paesi esteri, che lavorano in condizioni più agevolate rispetto alle nostre.
Sui temi dell’esportazione verso nuovi mercati, dunque, come ci si sta muovendo?
Purtroppo ci muoviamo tutti individualmente, in ordine sparso. Insieme si potrebbe fare molto di più, aprire con più facilità nuovi canali commerciali. E ci muoviamo alla cieca perchè mancano i dati. Quanta Red Globe viene prodotta in Puglia? Quanta uva senza semi (distinta per varietà)? Nessuno può dirlo. E di certo non si può fare impresa in modo serio senza avere dati su cui basare le scelte. La nostra azienda si sta impegnando molto nel diffondere conoscenza nel settore dell’uva da tavola e nel territorio. Si possono fare tantissime cose per sostenere i consumi di uva, ma i diversi soggetti devono collaborare. Penso che in questo momento ci sia tantissimo bisogno di aiutare il territorio.
Autore: la Redazione
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