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Produzione

Angelo Di Palma: “Sfide e prospettive per il mercato dell’uva da tavola”

Angelo Di Palma descrive come è cambiato il mercato internazionale dell’uva da tavola negli ultimi 5 anni. Sognare nuovi mercati sarebbe possibile solo con un’azione congiunta tra intero comparto e istituzioni. 

da Redazione uvadatavola.com 11 Aprile 2022
11 Aprile 2022
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Angelo Di Palma descrive come è cambiato il mercato internazionale dell’uva da tavola negli ultimi 5 anni. Sognare nuovi mercati? Solo con un’azione congiunta tra comparto e istituzioni.

Il gruppo Di Palma si compone di diverse realtà. Al suo interno vi troviamo l’azienda “Di Palma Donato e Figli”, storica realtà nata nel 1972, il cui core business consiste nella produzione e commercializzazione di ortofrutta e in particolare di ciliegie, uva da tavola e agrumi.  C’è poi l’azienda agricola produttiva “Frutti di Puglia”. Infine nel 2013 è nata “Fruits Land”, di cui il giovane Angelo Di Palma è il legale rappresentante. Ed è proprio con lui che chiacchiereremo con l’intento di comprendere come è cambiato in questi 5 anni il mercato italiano ed europeo dell’uva da tavola. 

 

Angelo, quali sono i presupposti da cui nasce Fruits Land?

Mio fratello ed io siamo i fondatori di Fruits Land e di fatto rappresentiamo la terza generazione della famiglia Di Palma. Il nostro progetto nasce per far fronte all’esigenza di investire nella produzione di uva da tavola senza semi. Le uve senza semi rappresentano, infatti, un trend positivo in crescita da anni. Fruits Land produce e commercializza la propria uva collaborando anche con produttori fidelizzati.

Cosa è accaduto negli ultimi cinque anni nel settore dell’uva da tavola? 

Di base c’è stato un passaggio sostanziale dei consumi dalle uve tradizionali a quelle senza semi. Le prime ovviamente non scompaiono dagli scaffali, ma tendono sempre di più a trasformarsi in una nicchia, che ha ragion d’essere solo se il prodotto realizzato è di qualità superiore. Il consumo delle senza semi diventa sempre più interessante.

Il mercato più avvezzo alle apirene, già dai primi anni 2000, era il Regno Unito, successivamente il mercato tedesco ha rappresentato, ed ancora oggi rappresenta, un punto di riferimento per il prodotto italiano. Negli ultimi cinque anni è accaduto qualcosa di molto interessante: l’aumento dei consumi delle uve seedless nei Paesi scandinavi e addirittura nei Paesi dell’Est Europa. Paesi, questi ultimi, storicamente abituati al consumo di uve tradizionali, ma che stanno apprezzando di buon grado il frutto senza semi.

Andando ad inquadrare il panorama delle cultivar apirene ci troviamo davanti un ventaglio varietale molto ampio, grazie al lavoro dei breeder internazionali sul nostro territorio. Riguardo le performance di vendita,  le varietà a bacca bianca registrano la prevalenza in termini di volumi; tuttavia negli ultimi 5 anni si è registrata una considerevole propensione all’acquisto verso le cultivar a bacca rossa e nera, assieme alla referenza mix.

 

Secondo te il consumatore è spaesato dinanzi a questa moltitudine di varietà?

Il veicolo principale attraverso cui le nostre uve giungono al consumatore è rappresentato dalla GDO. Pertanto, in questa prospettiva, vi sono catene che acquistano in maniera generalizzata, perseguendo una proposta commerciale basata unicamente sulla tipologia di colore delle uve e che quindi utilizzano il prezzo come unico driver di vendita. Questo è sicuramente un approccio che non valorizza gli investimenti sostenuti lungo tutta la filiera.

D’altro canto, fortunatamente, negli ultimi anni, ciò sta cambiando. Sono sempre più le insegne che, per esempio, propongono la referenza “premium” nei loro scaffali, puntando su varietà che si distinguono effettivamente per qualità organolettiche, a favore di una maggiore fidelizzazione del consumatore. Fidelizzazione che è possibile anche perché determinate cultivar, essendo prodotte nei diversi areali, tendono ad essere sul mercato per 12 mesi l’anno.

 

Quindi anche se le varietà dei breeder internazionali sono realizzate al di fuori dall’Italia riusciamo a raccogliere e ottenere anche qui un prodotto standardizzato? 

L’obiettivo principale per le nostre produzioni dovrebbe appunto essere la standardizzazione. Riuscire ad offrire al consumatore un prodotto che abbia precise caratteristiche nel corso del tempo.

Questo chiaramente non è un obiettivo facile da perseguire. Certo, la maggior parte delle nuove varietà sono realizzate al di fuori del nostro territorio, pertanto occorre anzitutto adattare i protocolli colturali alle specifiche condizioni dell’areale in cui si produce. Ciascuna varietà richiede una gestione agronomica oculata e differente. Altra sfida che la produzione si trova ad affrontare è il dover rispettare i disciplinari fitosanitari impartiti dalla GDO, sempre più stringenti e talvolta lontani dai princìpi della difesa integrata. Tutto ciò non è proprio una passeggiata, considerando anche i cambiamenti climatici in atto.

 

La vostra azienda dove esporta?

La nostra uva arriva su tutti i mercati europei, inoltre di anno in anno facciamo alcuni test, ad esempio con il mercato mediorientale. Purtroppo l’Italia ha un limite: non lavora per realizzare protocolli fitosanitari per l’esportazione, questo ci impedisce di giungere laddove la Spagna riesce ad esportare. La Spagna riesce a proporre il suo prodotto anche al di fuori dell’Europa grazie a APOEXPA: associazione che riunisce produttori ed esportatori di uva da tavola. Essa lavora in sinergia con gli organismi statali. Questo tassello così importante a noi manca, la Spagna ci dimostra l’importanza della collaborazione tra pubblico e privato per la creazione di nuovi sbocchi commerciali.

 

Secondo te i produttori e gli esportatori italiani hanno gli strumenti per poter inviare uva sana in paesi lontani? 

Di base si deve impostare la gestione del post raccolta e della logistica a seconda del mercato che si desidera aggredire. Ma ancora prima di questo, dal punto di vista commerciale, dovremmo studiare il mercato di destinazione. Ciascun mercato presenta proprie dinamiche e caratteristiche.

Per esempio, prendendo in esame proprio il mercato cinese, sarebbe necessario analizzare preventivamente gli aspetti sociali e culturali che lo caratterizzano e solo successivamente impostare una strategia di penetrazione che possa risultare proficua nel lungo periodo, non limitandosi all’invio sporadico di qualche container.

Per essere impeccabili servirebbe quindi un’azione unitaria, organizzata, gestita e compiuta in maniera sinergica da produttori di uva da tavola italiani e organismi pubblici. Purtroppo, allo stato attuale questi discorsi sono del tutto prematuri, non avendo possibilità di ingresso in mercati nuovi rispetto a quelli in cui siamo già presenti.

Recentemente è emerso che al produttore dal 2000 ad oggi – oltre 20 anni – il prezzo riconosciuto per l’uva è sempre lo stesso. Al contrario, invece, sono aumentati, di molto i costi di produzione. Qual è la vostra posizione rispetto a questo problema?

Noi siamo prima di tutto dei produttori e conosciamo bene la situazione. L’aumento dei costi delle materie prime ha pesato considerevolmente anche sul segmento della commercializzazione: confezioni di carta o plastica e imballaggi in genere hanno segnato un’impennata di oltre il 30%. Stesso discorso per l’energia elettrica – indispensabile per lo stoccaggio del prodotto e per refrigerare i magazzini -. Infine, ma non meno importanti, gli aumenti dei prodotti fitosanitari.

La campagna 2021, da questo punto di vista, è stata esemplare. Se da un lato abbiamo già assaggiato una prima impennata di costi (30 – 40%) dall’altro abbiamo registrato per il produttore ricavi in calo del 20-30%. La nostra raccolta è cominciata con 15 giorni di ritardo rispetto al solito e questo ha contribuito a provocare un accumulo di prodotto che il mercato non è stato poi in grado di assorbire. Tutto ciò è accaduto nonostante il prodotto italiano avesse una qualità molto alta, frutto del favorevole andamento climatico di cui abbiamo goduto nella prima parte della stagione.

 

La lista dei Paesi produttori è aumentata? 

Mentre la GDO italiana tende a preferire il prodotto nostrano, in ambito europeo la situazione è un po’ diversa. Purtroppo bisogna tener conto che la produzione italiana si accavalla a inizio campagna con Egitto, Marocco e Tunisia, Paesi che vendono a prezzi sicuramente più concorrenziali dei nostri. Nel momento in cui il nostro prodotto conquista volumi, ecco che entrano in gioco anche le uve di provenienza spagnola e greca. Paesi, questi ultimi che, tra le altre cose, stanno impiantando le nostre stesse varietà.

Secondo me nei prossimi anni dovremo guardarci le spalle soprattutto dalla Grecia, perché se fino ad oggi ha prodotto solo Thompson e Crimson tra qualche anno comincerà a produrre – con costi ancora una volta inferiori rispetto ai nostri – tutte le più importanti cultivar di proprietà dei breeder internazionali. La nostra finestra di mercato più interessante è sicuramente quella più tardiva, ma anche in questo caso vediamo che le produzioni d’oltremare (Brasile e Perù) si affacciano sempre più precocemente sul mercato europeo. Siamo in una finestra di mercato ultra competitiva.

Come lo vedi il futuro, Angelo? 

Sono fiducioso. Molto dipenderà da come  evolveranno i diversi aspetti di cui abbiamo parlato. Sicuramente abbiamo un gap molto ampio da colmare in ottica di innovazione varietale made in Italy. Tuttavia, da qualche anno, in Italia sono nati progetti di miglioramento genetico grazie ai quali contiamo di riuscire ad ottenere delle cultivar disegnate appositamente per i nostri areali. Questo, a mio avviso, sarà il primo passo da compiere per rendere la viticoltura da tavola sostenibile anche in futuro.

Sono fiducioso soprattutto per la boccata d’aria fresca che le nuove generazioni stanno portando nel settore. Sempre più ragazze e ragazzi stanno prendendo in mano le redini delle aziende agricole, loro sapranno sicuramente affrontare con carattere le sfide che ci attendono.

 

Autrice: Teresa Manuzzi
©uvadatavola.com

 
 
 
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