Il trend che sta attraversando il comparto della viticoltura da tavola in Italia non è positivo. Tuttavia, le contromisure messe in atto dai vari operatori della filiera, per cercare di contrastare una tendenza che non sembra orientata a nostro favore, non sono molte.
Nei mesi scorsi abbiamo rivolto qualche domanda ad Alfio Messina (Agrimessina S.r.l.), Nicola Giuliano (Orchidea Frutta S.r.l.), Marino Santamaria ed Ottavio Leone (O.P. Terra di Bari) e Vito Lasorella (Lara Fruit) per provare a definire il trend di mercato che il prodotto uva da tavola sta attraversando.
Le risposte non sono state sempre rassicuranti, le cause che hanno generato i problemi che oggi vive il settore sono note a tutti. I due temi costantemente presenti in ogni intervista sono la difficoltà nella conversione del parco varietale, con il passaggio alle varietà apirene più appetite dal mercato, e la scarsa tendenza nell’individuazione di forme di aggregazione “serie” tra gli operatori commerciali. Non dare risposte a queste esigenze espresse dal contesto in cui la filiera opera, potrebbe rappresentare un grosso rischio per il futuro di tutto il settore.
A grande richiesta, riproponiamo settimanalmente ogni singola intervista già pubblicata sul n. 5/2014 della nostra rivista Uva da Tavola Magazine.
Di seguito la terza intervista a Nicola Giuliano di Orchidea Frutta S.r.l., azienda commerciale di Rutigliano (BA) specializzata nella produzione e distribuzione di uva da tavola, ciliegie, agrumi, pesche, albicocche, angurie, carciofi. Grazie al costante impegno nell’investire in strutture e impianti, attualmente l’azienda comprende circa 200 ettari di uva da tavola in produzione propria, di cui il 60% dedicato alla produzione di uve con semi, mentre la restante parte è coltivata a vigneti con varietà seedless. Inoltre, l’azienda predilige fornitori ed operatori locali, per il senso di radicamento nel territorio consolidato negli anni, facendo crescere in questo modo l’indotto dell’ortofrutta in generale e dell’uva da tavola in particolare (che rappresenta la fetta più importante dell’economia territoriale). Orchidea Frutta è una azienda in crescita che si sta dedicando in questo momento allo sviluppo delle varietà apirene. L’azienda sta cercando di combattere la crisi che coinvolge il settore dell’ortofrutta puntando soprattutto sulle innovazioni e sui nuovi mercati di sbocco, al di fuori di quello europeo ormai maturo, saturo, e non più in espansione.
Qual è il punto di vista di Orchidea Frutta circa il trend di consumo di uva da tavola in Europa e nel resto del Mondo negli ultimi cinque anni?
I dati relativi ai consumi di uva da tavola in Italia ed Europa sono noti. Per l’uva da tavola si parla, così come per il resto dell’ortofrutta, di un calo dei consumi. Devo però anche dire che se considero i volumi movimentati dalla nostra azienda, non noto alcuna diminuzione, anzi. Nel 2013 abbiamo movimentato, in termini di quantità, molta più uva del 2012, sebbene il fatturato del 2013 è stato analogo a quello dell’anno precedente per via della diminuzione del 10-15% del prezzo medio dell’uva. Le uve senza semi sono in forte crescita e stanno diventando anno dopo anno una realtà nel consumo.
A discapito delle uve con i semi…
Si, questo è vero. Tuttavia, ripeto ancora una volta, l’invito che faccio ai produttori è di non abbandonare le uve tradizionali con semi come l’uva Italia. Bisogna diversificare le colture in azienda in modo da produrre per il 50% uve con semi e per il restante 50% uve apirene.
L’uva con semi, in Medio ed Estremo Oriente, potranno avere mercato?
I Paesi emergenti chiedono, e anche tanto, l’uva con semi, ma si parla di uve rosse o nere come Red Globe e Palieri. Mentre la varietà Italia sarà commercializzata solo in Europa. È ancora poca, invece, l’uva apirena inviata in quelle aree. Resta il fatto che in Europa il consumo delle uve con semi continuerà ad esserci sempre, ma bisognerà ritornare a fare un prodotto all’altezza di 8–9 anni fa, quando, a mio avviso, ancora si faceva la vera uva Italia con il suo gusto caratteristico, oggi dimenticato dal consumatore. Anche perchè l’Italia è l’unica uva che può essere gestita in un periodo di 6 mesi, fattore molto, molto importante.
Diversificare in azienda le colture fino ad arrivare al 50% di apirene significa modificare in modo sostanziale il parco varietale del nostro territorio.
Esatto, ma bisognerà fare attenzione: sulle senza semi il business è molto forte. Quando si sceglie di intraprendere una strada bisognerà, a mio avviso, procedere a piccoli passi per evitare di farsi male se questa dovesse rivelarsi sbagliata. In tanti propongono, ma dietro le parole e le foto delle nuove varietà seedless devono esserci i fatti.
Il consiglio è dunque di diversificare, ma facendo attenzione a non investire superfici troppo estese…
Le varietà senza semi oggi disponibili sono tutte valide. Bisogna però capire cosa succederà tra un po’ di tempo. Quali riusciranno effettivamente ad affermarsi.
Quali sono a suo avviso le caratteristiche delle uve del futuro?
Inutile nascondere che il trend delle uve senza semi è in crescita. Ma dal nostro punto di vista crediamo di avere ancora abbastanza spazio per poter commercializzare per molto tempo uva con semi. Certo, altre aziende di commercializzazione possono vederla in modo molto diverso, ma noi crediamo ancora nelle uve con semi. Alcuni ricercatori hanno realizzato una pubblicazione relativa a tutti i benefìci per la nostra salute delle sostanze contenute nei semi. Su questo non c’è sufficiente informazione, purtroppo.
Quali sono i problemi della viticoltura da tavola italiana?
Sicuramente avere un territorio così frammentato non aiuta. E poi credo anche che la modalità di gestione delle apirene non si stia compiendo in modo ottimale. Sulle senza semi ognuno procede e sceglie la propria strada, senza organizzazione, senza un progetto organico. In questo modo diventa impossibile fare passi avanti. Perché quando riusciremo ad individuare una varietà veramente indicata per il nostro territorio, se questa non si diffonderà con facilità, non potremo raggiungere nessun risultato. Per quanto può essere grande una singola azienda agricola, da soli nel mondo globalizzato e contro la GDO non si può far nulla. Una buona varietà di uva da tavola va diffusa sul territorio tra le aziende, solo in questo modo si possono produrre i volumi di prodotto necessari a fare i programmi di commercializzazione con la GDO. I Club non sono la soluzione, ognuno tira l’acqua al proprio mulino, ma in questo modo non si fa strada. Con 200, 300 o anche 500 ettari di una varietà non possiamo fare niente. Ripeto, bisogna permettere ad una buona varietà di diffondersi sul territorio.
La commercializzazione, progressivamente, si sta spostando verso nuovi mercati orientali. Quali sono le difficoltà che l’operatore commerciale incontra per inserirsi in queste nuove realtà?
Accordi commerciali con i Paesi del Medio ed Estremo Oriente già ci sono, ma purtroppo non riguardano il nostro settore. La classe politica pensa a tutto fuorché all’agricoltura, che è considerata un settore perdente. I problemi in quei mercati ci sono, ma sono aree commerciali nuove, delle quali non conosciamo bene le dinamiche, i gusti, le esigenze. Sappiamo che chiedono tantissimo l’uva rossa e nera, sembra non abbiano bisogno di uve bianche e cominciano a chiedere i primi ridotti volumi di uve senza semi. Poi le difficoltà ci sono sempre, così come in Europa. Certo, sappiamo che possono rappresentare una ottima valvola di sfogo, ma servono ancora diversi anni per comprendere a fondo queste realtà.
Cosa occorrerà fare in futuro nel settore della commercializzazione per lavorare al meglio?
La cosa di cui sono sicuro tutti abbiano bisogno è l’aggregazione, tra operatori commerciali, ma anche tra noi e le aziende agricole. Gli operatori commerciali sono tanti e frammentati, e ognuno segue la propria strada, mentre servirebbe essere più uniti. Poi serve la ricerca. L’Italia è l’unica nazione (tra quelle nelle quali si produce uva da tavola) in cui non esiste una sperimentazione concreta, utilizziamo le varietà che arrivano dalla California e da ogni dove, ma non esiste un istituto pubblico che individui soluzioni ai problemi reali che abbiamo in campo. Noi abbiamo bisogno di proporci sui mercati, ma serve la ricerca sperimentale varietale. Lo stesso vale per le ricerche di mercato. Questo non lo possiamo fare da soli, serve l’aiuto pubblico. Infine, desidero inviare un messaggio agli ottimi produttori che caratterizzano tutto il nostro territorio: puntate sulla qualità, anche se questo significa dover produrre un po’ meno. La qualità alla fine paga, sempre.
Autore: la Redazione
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