Il trend che sta attraversando il comparto della viticoltura da tavola in Italia non è positivo. Tuttavia, le contromisure messe in atto dai vari operatori della filiera, per cercare di contrastare una tendenza che non sembra orientata a nostro favore, non sono molte.
Nei mesi scorsi abbiamo rivolto qualche domanda ad Alfio Messina (Agrimessina S.r.l.), Nicola Giuliano (Orchidea Frutta S.r.l.), Marino Santamaria ed Ottavio Leone (O.P. Terra di Bari) e Vito Lasorella (Lara Fruit) per provare a definire il trend di mercato che il prodotto uva da tavola sta attraversando.
Le risposte non sono state sempre rassicuranti, le cause che hanno generato i problemi che oggi vive il settore sono note a tutti. I due temi costantemente presenti in ogni intervista sono la difficoltà nella conversione del parco varietale, con il passaggio alle varietà apirene più appetite dal mercato, e la scarsa tendenza nell’individuazione di forme di aggregazione “serie” tra gli operatori commerciali. Non dare risposte a queste esigenze espresse dal contesto in cui la filiera opera, potrebbe rappresentare un grosso rischio per il futuro di tutto il settore.
A grande richiesta, riproponiamo l’ultima intervista (già pubblicata sul n. 5/2014 della nostra rivista Uva da Tavola Magazine) a Vito Lasorella di Lara Fruit S.r.l., società di esportazione nata nel 2004 che lavora e movimenta volumi di circa 30mila quintali di uva da tavola all’anno (da luglio fino all’inizio di dicembre). L’azienda effettua per il 90% scambi commerciali con il mercato estero e collabora con un grosso Consorzio dell’Emilia Romagna che permette loro di utilizzare i suoi canali commerciali.
Quali sono gli input che nell’ultimo quinquennio sono giunti dai mercati europei?
A differenza del passato, negli ultimi 4 anni stiamo facendo fatica a trovare canali commerciali capaci di dare la giusta remunerazione alla nostra tipologia di prodotto. Nei primi anni dopo il 2004, quando è nata la nostra azienda, tutto era più semplice. Basta dire che attualmente Lara Fruit smette di commercializzare l’uva a fine novembre, massimo inizio di dicembre, per via dell’arrivo delle prime uve dall’altro emisfero.
Qual è il trend nel consumo di uva da tavola che si sta osservando in Europa negli ultimi anni?
Noi, anche grazie al consorzio nel quale siamo inseriti, anno dopo anno facciamo delle statistiche relative ai nostri vari clienti, sondando il mercato di tutta l’Europa e oltre. Fino a qualche anno fa eravamo molto presenti sui mercati del Nord Europa (Danimarca, Svezia), ma i quantitativi inviati di uva con semi (Vittoria, Italia, Palieri, Red Globe) sono progressivamente diminuiti. Abbiamo osservato, dati alla mano, una riduzione del 60-70% rispetto a soli 5-6 anni fa. Questo ci preoccupa e non poco. Un nostro cliente, per il quale spedivamo 5-6mila quintali di uva con semi, ha acquistato nel 2013 solo 1.600 quintali di uva. Quel che è peggio, la GDO si rivolge a noi sempre più spesso per piccoli quantitativi di prodotto, mentre i grossi volumi di acquisto riguardano le senza semi provenienti da Turchia, Spagna e Grecia che, entrando prima nel canale delle apirene, hanno conquistato il mercato. Anche il mercato tedesco, che fino a 5-6 anni fa trattava le senza semi poco o nulla, negli ultimi due anni sta invece richiedendo ingenti volumi di apirene.
Oltre l’Europa, i mercati di USA, Medio ed Estremo Oriente possono rappresentare una ulteriore opportunità per commercializzare il nostro prodotto?
Da qualche tempo stiamo sondando i mercati oltremare, come il Canada. Ma commercializzare nel paese nordamericano comporta una serie di difficoltà non da poco. Chiedono la fumigazione con bromuro di metile contro l’Oziorrinco, un gas velenosissimo se inalato, attualmente vietato in Italia. Quindi, per poter esportare in Canada, bisogna transitare dagli Stati Uniti. Anche il Brasile, per noi fino a pochi anni fa sconosciuto, da un po’ di anni sta progressivamente diventando un nuovo mercato, soprattutto per le uve rosse come la Red Globe, l’unica uva con seme che richiedono. In entrambi i casi il prodotto deve essere sano al 100%, perché soggetto ad un viaggio lunghissimo. Ritengo che questi nuovi mercati potrebbero essere un modo per continuare a commercializzare.
È corretto affermare che la diminuzione del consumo di uve riguarda solo quelle con semi?
Si, è così. Io sono stato tre anni fa in Danimarca, ho visitato a maggio diversi supermercati. Il loro prodotto più consumato nell’arco di tutto l’anno è l’uva. E si tratta di uva apirena. Quando, invece, verso settembre-ottobre arriva il nostro momento, ovvero giungono sui loro mercati le nostre uve con semi, la gente che è abituata alle apirene risente negativamente della presenza dei semi. Questo dato deve far riflettere.
Le uve più apprezzate sui nostri mercati di riferimento, quindi, sono senza semi?
Fino a 10 anni fa non lo avrei mai detto, non credevo che le uve senza semi avrebbero conquistato il mercato, ma ho dovuto ricredermi. Quello che ancora non riesco a comprendere è la presenza sul nostro territorio di moltissime varietà di uve apirene. Invece, quello che di solito si cerca di fare con tutti i prodotti ortofrutticoli è abituare il consumatore a poche varietà. Non so se seguire tutta questa gamma varietale è corretto. Anche perchè all’estero le varietà principali senza semi sono sempre la Thompson e la Superior seedless, mentre tra le rosse c’è la Crimson seedeless. Il resto è contorno.
Tracciamo il profilo dell’uva del futuro oltre, come già ribadito, all’assenza di semi.
A mio avviso, come per gli altri alimenti, anche l’uva deve innanzitutto essere buona da mangiare. Nel caso di Thompson, Superior e Crimson seedless, le caratteristiche organolettiche sono spiccate, molto gradevoli e apprezzate ormai da anni dal consumatore. Credo che il gusto e il sapore siano così importanti da poter permettere anche di sacrificare, in parte, la componente estetica come il calibro della bacca. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra aspetto esteriore e sapore. Questa è la qualità. Ovviamente lo stesso vale anche per la nostra uva Italia e le altre uve con semi. Purtroppo, non credo che tutte le varietà senza semi che si stanno affacciando adesso sul mercato abbiano una spiccata qualità organolettica.
Si sente la mancanza di dati relativi alla produzione delle diverse varietà?
Si, soprattutto il produttore necessita a mio avviso di questi dati per fare le scelte relative all’impianto. Questi dati, oggi, non sono a nostra disposizione, non esiste alcun censimento reale. Il risultato è che ci si ritrova con sovrapproduzioni, oggi di Vittoria, domani di Crimson seedless. Di Sugraone invece se ne sta impiantando molto poca, mentre si sta mettendo la Regal. Sappiamo benissimo però che le caratteristiche organolettiche della Sugraone sono ben diverse da quelle della Regal. Spesso i produttori prendono delle scelte solo seguendo la moda del momento. I dati dei volumi movimentati da ciascuno di noi commercianti sono disponibili presso l’ICE (Istituto per il Commercio Estero). Unire i dati delle superfici coltivate distinte per varietà, con i rispettivi volumi commercializzati, permetterebbe ai produttori di scegliere meglio le varietà da impiantare. Tale problema è molto meno accentuato per il commerciante, il quale acquista solo quello che gli serve.
Cosa manca sul territorio per commercializzare in modo ottimale?
Secondo me una collaborazione tra i diversi operatori del settore sarebbe, allo stato attuale, l’ideale. La Grande Distribuzione lo ha fatto, noi invece procediamo ciascuno per la sua strada, in modo indipendente e alla rinfusa. Questo non fa bene al comparto. Noi lavoriamo con una grossa catena tedesca alla quale, insieme ad altri sei fornitori, conferiamo l’uva. Ma quando ci confrontiamo con la GDO, noi operatori commerciali abbiamo sempre una sorta di timore reverenziale.
Facciamo un esempio.
Se c’è una promozione, loro decidono come, quando e a che prezzo farla, senza interpellarci. A mio avviso noi dovremmo poter essere più partecipi nelle fasi decisionali. Se ci confrontassimo su questi aspetti, si potrebbe far capire alla GDO qual’è il periodo migliore per una promozione. Va un po’ meglio con la GDO italiana, che ci avvisa dai 30 ai 45 giorni prima, in modo da permetterci un minimo di organizzazione. Con la GDO italiana c’è un minimo di trattativa, ma con quella estera zero. Questo da fastidio.
C’è quindi poca collaborazione…
Non c’è sinergia tra noi operatori commerciali, e non c’è sinergia tra operatori e GDO. C’è sempre il nostro caratteristico egoismo, la diffidenza, l’individualismo. In passato mi sono scontrato su questi temi, ma non se ne riesce a venire a capo. Eppure la collaborazione tra noi commercianti permetterebbe di tenere alto il prezzo e portare dei vantaggi anche ai produttori. Ma sarà molto difficile trovare accordi tra noi esportatori.
Anche perchè, esattamente come il territorio, anche il mondo degli esportatori è molto frammentato. Solo su Noicattaro (Bari) se ne contano 30-35. Si è parlato tante volte di mettere in atto strategie comuni per affrontare la GDO, ma fino ad ora non si è riusciti ad andare oltre le buone intenzioni.
Autore: la Redazione
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