E se contingentassimo la produzione?

Del primo numero 2023 di Uva da Tavola in questo articolo attori del settore si interrogano sulla strada da seguire per risollevare il comparto e la produzione.

da Silvia Seripierri

Dopo la fine della campagna viticola 2022 e a fronte delle problematiche di mercato, i diversi attori del settore dell’uva da tavola si interrogano su quale strada intraprendere. Per risollevare il comparto è necessario pensare e adottare specifiche strategie economiche, anche prendendo spunti da quelle di altri comparti, simili a quello dell’uva da tavola. Inevitabile il confronto con l’uva da vino. In questo articolo confronteremo il parere di tre attori del settore – un produttore, un esportatore e un ricercatore – a cui abbiamo chiesto: “e se contingentassimo la produzione di uva da tavola così come si fa per l’uva da vino?”.

Prenderanno la parola Antonio Bellarosa, produttore e responsabile tecnico dell’azienda agricola Bellarosa di Mola di Bari (BA), Domenico Pernice, responsabile commerciale per l’estero dell’azienda Pernice Srl di Turi (BA), e Luigi Tarricone, primo ricercatore del CREA-Centro ricerca Viticoltura ed Enologia di Turi (BA).

Prima di entrare nel vivo del dibattito, Bellarosa e Pernice hanno avanzato considerazioni personali sulla campagna viticola 2022.

Bellarosa, la cui azienda è situata in agro di Mola di Bari, zona precoce per l’uva da tavola, non ha lamentato grossi problemi circa la campagna viticola 2022; Pernice l’ha definita invece confusionaria e ridotta in termini di volumi e prezzi, rispetto a quelle degli anni passati. “A fare la differenza e a pesare su produttori e commercianti – ha detto Pernice – è stato l’aumento dei costi di gestione e l’eccesso di prodotto sui mercati. A novembre tanta uva era ancora pendente e invenduta nei vigneti. Per far fronte a situazioni come questa contingentare le produzioni appare una buona idea, perché consentirebbe di salvaguardare il prodotto, di evitare casi di sovrapproduzione e di diminuire le perdite in campo”.

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Uva da tavola della varietà Vittoria.

“Ad oggi, visti i costi di produzione – ha continuato Bellarosa – è impensabile produrre investendo risorse per poi non raccogliere il prodotto. Limitare le produzioni, anche secondo la mia opinione, sarebbe una buona idea. Negli ultimi 3-4 anni i viticoltori, incentivati dalle politiche europee e dalle indicazioni dei breeder, hanno raddoppiato le produzioni di uva da tavola apirena, senza però trovare il riscontro economico sperato. Di fatto la Comunità Europea ha incentivato nuove produzioni senza però offrire un preciso orientamento alle aziende agricole. Molte di esse, quindi, hanno impiantato uva da tavola, perché è una delle colture considerate più redditizie.

Sempre l’UE, negli anni, ha favorito la crescita delle aziende già grandi.

I breeder, di pari passo, hanno promosso la coltivazione delle loro varietà prevedendo che la domanda sui mercati sarebbe stata molto alta. Per questi motivi, l’80% delle aziende viticole ha investito le proprie risorse economiche per convertire le produzioni. Ad oggi, quindi, la sovrapproduzione è la prima responsabile dei problemi che stiamo vivendo. Il mercato non è in grado di assorbire più prodotto e noi agricoltori siamo sempre più esposti e facilmente ricattabili dalla GDO. A dimostrazione di ciò, i prezzi delle uve brevettate si stanno sempre più avvicinando ai prezzi delle “vecchie” varietà. Perché il settore dell’uva da tavola non muoia, quindi, ritengo fondamentale trovare delle soluzioni mirate a far incontrare domanda e offerta”.

Il contingentamento con il sistema delle quote è oggi usato per l’uva da vino, ma cosa sta succedendo in questo settore?

“Quello dell’uva da vino – ci spiega Luigi Tarricone – è un settore regolamentato a livello nazionale ed europeo, da normative diverse, tra cui il sistema delle autorizzazioni per gli impianti viticoli. Retorico dire che nel tempo questo sistema, attuato in passato anche mediante premi all’estirpazione, ha fatto perdere all’Italia molte quote di produzione. In Italia gli ettari ad uva da vino nel 2005 erano circa 727 mila, mentre i dati del 2021 indicano circa 670 mila ettari con una riduzione pari al 7,2% in soli 16 anni. Si tratta di un sistema sicuramente valido per evitare la sovrapproduzione, ma che andrebbe implementato con una seria programmazione dei reimpianti. Oggi il mercato dell’uva da vino è altalenante e, nonostante la disciplina degli impianti, i prezzi ai produttori e ai trasformatori non sempre sono equi.

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Il dott. Luigi Tarricone.

Nel 2022 il prezzo medio dell’uva da vino è stato molto più basso rispetto a quello degli anni precedenti.

Disporre di programmazioni varietali per le diverse aree territoriali consentirebbe al sistema di funzionare in maniera più efficace. A ciò si aggiunge che l’Italia dispone di un così ricco panorama ampelografico che consentirebbe ai viticoltori di specializzarsi su varietà fortemente adattate al territorio per offrire ai consumatori italiani e stranieri un ventaglio di scelta dei vini molto ampio non limitando i consumi a pochi vini varietali. L’elevata biodiversità nel panorama ampelografico italiano dovrebbe diventare un punto di forza del sistema consentendo al consumatore di apprezzare vini “italici” diversi nell’arco dell’anno. Impiantare un vigneto è una scelta destinata a rimanere tale per 20-30 anni per cui non si può più pensare di fare un investimento di lunga durata senza avere dati e prospettive del trend dei consumi. Questo è valido anche per l’uva da tavola in Italia, perché pochi sono gli studi sulle dinamiche di mercato. Questi dati sarebbero molto utili ai produttori per capire come orientarsi nella scelta delle varietà e dei sistemi di conduzione per offrire uva da tavola di alto valore merceologico”.

Potrebbe essere utile contingentare la produzione di uva da tavola mediante il sistema delle quote?

“Prima di parlare di contingentamento delle produzioni – aggiunge il dott. Tarricone – credo sia più importante parlare di analisi delle superfici a uva da tavola in Puglia e in Sicilia – le due regioni italiane più importanti per l’uva da tavola – e di analisi della distribuzione varietale. Come accennato prima, una delle carenze di questo settore è la mancanza di statistiche aggiornate (in termini di superfici, classi di età e varietà) che tornerebbero utili al comparto per capire in quale direzione ci si è mossi finora. A queste analisi, poi, dovrebbe seguire, secondo me, una promozione dell’uva da tavola a tutto tondo e non solo di tipo commerciale – come quella che i buyer già fanno”.

Negli anni 80 il contingentamento è già stato usato per regolamentare le produzioni di uva da tavola e molti ricordano quegli anni come floridi.

“In quegli anni molto diversi dagli attuali – sottolinea Tarricone – la concorrenza commerciale con altri Paesi produttori di uva da tavola era piuttosto limitata. L’Italia era leader del settore, con oltre 10 milioni di quintali di uva da tavola, e le esportazioni superavano il 50% del totale. Attualmente la situazione è diversa. Oggi i competitor vecchi e nuovi sono molto più presenti sui mercati mondiali e con un’ampia scelta varietale, anche grazie alla grande promozione che questi Paesi fanno. La situazione attuale quindi non può essere paragonata a quella degli anni 80, perché il panorama è mutato profondamente sia a livello nazionale che mondiale”.

Lo sviluppo di nuove varietà di uva da tavola con royalty sottende anche la necessità di registrare migliori performance sul mercato. Anche per questo i breeder limitano gli ettari impiantati con le proprie cultivar. Questo tipo di restrizione è differente, rispetto a quella praticata con il contingentamento pubblico su uva da vino.

Secondo Domenico Pernice, giovanissimo ed esperto in ambito commerciale, la politica adottata dai breeder sarebbe corretta se i costitutori varietali rendessero più accessibile sia la produzione che la commercializzazione. “Essere autorizzati a commercializzare varietà con royalty comporta tanti ed elevati costi anche per noi commercianti. Allo stato attuale – ha concluso Pernice – credo che il metodo delle quote utilizzato nel comparto vitivinicolo sarebbe un’alternativa più valida”.

D’accordo con Pernice si dice Antonio Bellarosa.

Il produttore ha da sempre creduto nel sistema delle royalty, ma non ha mai condiviso il vincolo commerciale a cui i produttori sono assoggettati. “Negli anni – ha continuato Bellarosa – i breeder stessi hanno autorizzato diversi commercianti innescando meccanismi di concorrenza, le cui conseguenze ricadono su noi produttori. Con il sistema delle royalty non vedo alcun futuro per il nostro settore. Non è possibile pensare di produrre una varietà, spendere tanti soldi e non avere la libertà di decidere a chi venderla. Per questo, quindi, la limitazione alla produzione mediante il sistema delle quote sarebbe forse più opportuna. Al tempo stesso, però, mi rendo conto che il sistema delle quote di uva da vino è mutato profondamente. In passato, quando si voleva interrompere la produzione e vendere le proprie quote, si era liberi di farlo. Oggi le dinamiche sono cambiate e le quote non possono essere trasferite al di fuori della regione di riferimento. Anche in quest’ambito, quindi, ci sono stati dei cambiamenti – si è passati dal parlare di autorizzazione all’impianto a parlare di diritto di impianto e reimpianto – e molte cose andrebbero, secondo me, riviste”.

Il pagamento di royalty e il sistema delle quote sono due aspetti completamente diversi – distingue Tarricone – in cui uno non esclude l’altro.

“Le varietà brevettate sono cultivar protette, la cui privativa è volta a tutelare il breeder per il lungo lavoro di selezione effettuato e i produttori autorizzati, mediante una serie di accordi commerciali. E’ un sistema di tipo privatistico in cui il breeder sulla base di proprie analisi di mercato a livello globale decide quanta superficie destinare nei diversi areali mondiali di produzione dell’uva da tavola, a una certa varietà, sperando in una redditività di medio-lungo periodo. Il sistema delle superfici per l’uva da vino invece sottostà a dinamiche diverse. Il vero problema, quindi, non è capire quale delle due tipologie di limitazione alle produzioni funzioni meglio, ma trovare strategie commerciali di promozione dell’uva da tavola italiana nel medio-lungo periodo. È importante che il consumatore conosca sia le classiche varietà con seme che le diverse varietà apirene attualmente disponibili e sia invogliato a includere nel proprio paniere di acquisti di frutta anche l’uva da tavola. Se a un campione di consumatori chiedessimo con quale frequenza mangia uva da tavola, la percentuale sarebbe molto più bassa rispetto a quella di altra frutta, fortemente promossa a livello commerciale (vedasi il caso della mela). L’Italia, e nello specifico Puglia e Sicilia, da anni sta incrementando la quota produttiva di varietà apirene, ma è importante non dimenticare che anche varietà storiche come l’Italia possono e devono avere ancora il loro meritato spazio commerciale. È giusto, quindi, che entrambe le tipologie di uva – sia le varietà con seme che quelle apirene – trovino il proprio spazio sul mercato con mirate campagne di promozione verso i consumatori italiani ed esteri”.

 

Silvia Seripierri

©uvadatavola.com

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